Antonio andava lì da quando aveva quindici anni, e tutti i suoi sogni erano soldati in fila di una
grande armata, pronti ad affrontare ogni combattimento.
Ora che quel tempo
era trascorso e vi ritornava, passava in rassegna i reduci di mille battaglie: avevano
le uniformi più logore e visi segnati dai corpo a corpo.
Contava i caduti:
al loro posto giovani legionari dalle belle speranze.
In mezzo a quelle
ridenti camelie Antonio, si sentiva un’arrochita gardenia ma doveva avere la
forza di restare, fermarsi, agitarsi anche lui per un po’ di quel sole fazioso.
Non era
completamente onesto quel raggio che s’infilava circospetto nella cella del suo
scompartimento. Antonio lo sapeva benissimo e forse era persino normale visto l’ambiente
in cui si trovava. Gente annoiata, triste, divisa. Quegli individui l’onestà
l’avevano barattata con lo sberleffo di circostanza utile a scollinare le
asperità della vita e raccontarsi una decorosa favola prima della buonanotte
dell’esistenza.
Era in treno.
Stava andando a Forlimpopoli a consegnare un “malloppo” di documenti decisivi per
l’espropriazione di un terreno su cui si sarebbe dovuto costruire un
ipermercato. Orrore, nausea, sbigottimento. Un’altra menzogna buona per
depliant ingannevoli e famiglie di cartapesta.
Antonio si sentiva
a disagio. Non era onesto vivere
fabbricando menzogne. Nemmeno quando questo significava assicurarsi buone
provvigioni e gratifiche mensili.
Ma doveva
resistere. Farcela assolutamente. Se lo era imposto fin dal giorno precedente.
Restava solo il viaggio da affrontare. Il viaggio. Due parole cui non riusciva
a mettere un freno, un punto per sentirsi davvero felice.
Mentre occupava l’ennesimo
scompartimento della sua vita, Antonio, si rese conto che non era l’approdo, il
punto cui mirava, ma nel chiarore dell’alba, finalmente giungere, a una terra
di miele e vento. Il percorso era il giogo cui sottometteva il capo, il desiderio,
il sogno di un seno vellutato nascosto in chissà quale andito del pianeta. E
intanto, la sua nave solcava arditi mari vagheggiando non la meta ma il viaggio
prossimo alla fine.
Alla stazione, c’era
il messo comunale che lo avrebbe portato a destinazione. Poco prima, vi era
stato un veloce scambio telefonico utile a tracciare contorni familiari a
quella che avrebbe dovuto essere l’ennesima vaga apparenza della sua vita:
giacca blu, cravatta rossa e una vaghissima somiglianza con Peppino Di Capri.
Perché il messo si fosse premurato di fargli sapere quest’assonanza
fisiognomica gli sfuggiva. Lui era cresciuto con le canzoni di Gianni Morandi e
Don Backy. Decise comunque che per una mezza giornata Peppino Di Capri gli
sarebbe andato benissimo.
Lo beccò subito.
Un affabile quarantenne con un sorriso da idiota, non notificatogli in precedenza,e
la sua famosa giacca blu, cravatta rossa e vaghissima somiglianza con Peppino
Di Capri.
Dopo una vigorosa
stretta di mano tutto riverente e ossequioso con un “Lei” imponente come lo
stacco di coscia di Heather Parisi, negli anni Ottanta, il messo disse di
aspettarlo qualche minuto. Il tempo di recuperare la macchina lasciata un
chilometro avanti.
“Le dispiace?”
No. Ad Antonio non
dispiaceva affatto. Il “Lei” gli era sempre piaciuto. Antonio era piccolo di
statura e quel “Lei” era la stalattite cui arrampicare quella rispettabilità
che una vita al limite del baratro, aveva slanciato verso vette che sentiva di
aver meritato.
Ma con quel messo
così onesto e premuroso aggiuntivi sostegni non servivano.
Il sudore che
imperlava la sua fronte indicava una vita vissuta con passione e certe sofferenze
hanno solo bisogno d’occhi formato attaccapanni disponibili ad accogliere le
vite degli altri per potersi svelare in tutta la loro calda magnificenza. L’attaccapanni
predisposto da Antonio era un “Tu” grande come una casa nella quale il loro
spirito si adagiò subito senza affanni né ritrosie. “Come ti chiami?”. “Angelo” disse lui. “Io son Antonio e per
arrivare a San Pietro, mi manca ancora molto, quindi perché risparmiarmi un
chilometro?”. E’ così verificato che aveva a che fare con un povero mortale i
due, s’incamminarono verso l’auto.
Antonio non era
San Pietro. Non c’erano dubbi. Ma aveva capito. Aveva capito che in quell’uomo
in giacca blu e cravatta rossa dalla voce piena di bollicine c’era invece una
gravosa malattia che il tempo non aveva sanato e chiedeva ancora il lenimento
dell’ascolto.
Nemmeno Angelo,
era un cherubino. Aveva tre figli e per tirare avanti, faceva due lavori.
Quello regolare del messo comunale, e per aver ereditato un podere ricco di
vigneti, il contadino.
La sua voce densa
era il suo cuore prodigo.
Nulla sembrava
pesargli. Anzi, quella fatica, lo gratificava e lo aiutava a sopportare i
rovesci dell’esistenza.
Aveva avuto un
matrimonio sbagliato, ma una separazione stupenda. Antonio non poteva crederci.
Angelo era radioso.
Antonio aveva
rinunciato all’amore. Malinconico, stava sulla riva dell’esistenza aspettando.
Angelo invece no. Angelo amava la salsedine, i cocci rotti, gli escrementi in faccia.
Il mare dell’amore gliene aveva regalato tanti. E li conservava tutti nel suo
sguardo pieno e dignitoso.
D’altra parte l’amore,
diceva Angelo, era un mare. E nel dire questo allargava le braccia formato
mappamondo. In un attimo quell'uomo in giacca blu, cravatta rossa, non era più
Peppino Di Capri. Bensì Domenico Modugno modello Nel blu dipinto di blu primo al Festival di Sanremo nel 1958 in
coppia con Johnny Dorelli.
E se è un mare, l’amore,
ha le sue onde, le sue maree e venti di gelosia che minacciosi soffiano
incessanti.
E se è un mare, l’amore,
conduce relitti galleggianti alla deriva, ossi di seppia lievi in sua balìa.
E se è un mare, l’amore,
allora è inutile opporvisi: bisogna abbandonarsi, dalla corrente lasciarsi
portare.
Lasciarsi portare.
E così, dicendo Angelo, ancheggiava modello ragazza hawaiana di stanza a
Honolulu.
Angelo aveva
scelto di lasciarsi portare e si era innamorato di nuovo. Di Zara. Una
marocchina di venticinque anni che tra quattro mesi diceva, gli avrebbe dato un
figlio. Il quarto della sua nidiata.
Ed era felice. Dei
suoi quasi quattro figli e della sua
separazione stupenda.
Con Roberta
(questo il nome della sua prima moglie), s'erano voluti troppo bene per continuare
a litigare e farsi del male. D’altronde, quando erano insieme, lui stava bene
solo quando lei due volte a settimana, andava dalla madre. Appena capirono che
la cosa era reciproca, iniziarono a parlare, fino a concludere che entrambi
desideravano la stessa cosa. Inoltre, da quando anche la moglie aveva trovato
un nuovo compagno, andavano d’amore e d’accordo ed essendo più sereni, anche i
loro tre figli, stavano meglio. Ora diceva orgoglioso Angelo, collaboravano e
se c’era bisogno, si aiutavano. Se si rompeva un rubinetto in casa della moglie, lei non chiamava più l’idraulico.
Andava lui e in un paio d’abili mosse metteva a riposo il senso di colpa che sotto la sua
giacca blu e la cravatta rossa tra le pieghe delle parole, lo divorava tutto.
Antonio cominciava
a non poterne più. L’arguta
determinazione di quell’uomo gli piaceva. La trovava giusta. Onesta. Ma quando Angelo si sforzava di
dimostrare a tutti i costi equilibrio e serenità non lo seguiva più e conati di
vomito gli sconvolgevano lo stomaco.
Erano quasi giunti
in prossimità dell’automobile e Antonio ebbe l’impressione di trovarsi davanti all’altra
metà di se stesso che gli era sempre stato accanto e che lui aveva
costantemente ignorato.
In un lampo
Antonio si rese conto che quell’uomo rappresentava l’altra parte di se che al
contrario di lui aveva vissuto stando al
centro della vita, dell’amore, di tutto.
In quel momento,
se solo avesse potuto, Antonio gli avrebbe voluto dire: «Se viaggio nei
dintorni dell'amore, è per non ferire, per non ferirmi».
Ma le campane a
festa che brillavano nella voce di quell’uomo ora smentivano le sue parole, facendo
il controcanto a questa che era solo mancanza di coraggio.
Nella sua stravaganza,
quell’uomo con la giacca blu e la cravatta rossa, gli stava dimostrando che amare
è darsi, non è solo stringersi nel proprio guscio ritirando antenne.
L'amore vero è diventare l'altro, pensare i suoi pensieri, anche a distanza,
tutto è ostile e sembra che tutto ti remi contro facendo del mare un manto
scuro rimosso di sogni.
Invece Antonio rimaneva
alla periferia di se. Ingolfato, solitario, stravolto dal fiume di parole che
premevano furenti agli argini della bocca e non riusciva a dire.
Angelo, bontà sua,
non aveva di questi problemi. Parlava all’infinito tramortendo il povero
Antonio il quale non si era ancora ripreso dalla folgore precedente, che già era
investito da un nuovo tifone chiacchierone.
Ora il poliedrico
Angelo, con fare sentenzioso ed esperto, parlava della paura. La paura di
separarsi. Quella che pareva attanagliare molte coppie ma che a lui e alla sua
ex, Roberta, non aveva colpito.
A suo dire molti
che non vanno d’accordo, non si separano per paura delle rappresaglie dei
parenti, timore degli amici desiderosi d’affibbiare la maglia nera al boa di
turno, cercando una vittima da consolare e coinvolgere in imprevedibili partite
a scarabeo. Paura del dolore arrecato ai figli, e di smarrire il loro rispetto,
perdere il loro amore. Paura d’esser
soli con un vuoto davanti troppo grande da riempire paura di quell’oltre che ci
avvince e non sappiamo chiamare col nome di qualcos’altro che ci attende.
Intanto senza
rendersene conto, Antonio insieme al suo gioioso amico in giacca blu e cravatta
rossa erano giunti a Forlimpopoli e nonostante si fosse fermato, ancora, continuava a cantargli
il trionfo di quella vita. Un assoluto
portento Angelo.
Giacca blu,
cravatta rossa, e un sorriso, forse allargato che non gli apparteneva.