giovedì 30 luglio 2015

Vivere per vivere non vale



Vivere per vivere non vale;
Ammonticchiare aliti
Contrastando il sole
D’ilare affanno rivolta affine.

lunedì 27 luglio 2015

Massimiliano



Massimiliano se l’aspettava da un po’. Quelle nuove leggi, quella  riscoperta insicurezza, quei bilanci aziendali stilati in grigio. E poi lei, certo: quella crisi. Quel mostro senza volto che anche se si faceva vedere da qualche anno, sembrava esserci da una vita. Fosse stato almeno un drago o un grifone o un’altra pagina qualsiasi di un bestiario medievale sui quali s’emozionava bambino, almeno avrebbe  potuto cercare di affrontarla. Invece era fatta di abbandono, di elenchi, di livore. Di cancelli che chiudevano e l’indomani mattina non aprivano. 
Più.
 Massimiliano fu chiamato in una raffazzonata sala riunioni da quel capo con il parrucchino rabberciato che aveva un nome più corto e tanti anni meno di lui. Quando la porta si chiuse, il discorso fu subito chiaro. C’èra una lettera di licenziamento. Non servì neanche trovare una scusa. Massimiliano era dirigente. Conosceva bene quel modus operandi.
Massimiliano tornò alla sua scrivania cercando nei cassetti le parole giuste per dirlo ai colleghi. Nelle prossime ore, nei prossimi giorni avrebbe dovuto trovarle per la moglie, per i figli, per i vicini, per tutti. Oltre all’incertezza sul futuro, pesava quest’ombra di colpevolezza. E non bastava invocare la crisi e le logiche globali per spazzarla via.
Massimiliano mise senza fretta le sue cose in una scatola di cartone recuperata nel corridoio. Cose inutili, cose che non gli sarebbero servite . Sembrava la scena di un film americano, ma quella non èra Hollywood. Certo che no. Era la vita compressa in una delicatezza pretesa solo sui cartoni delle cose da portar via e per il resto impegnata solo a dar calci nel fondoschiena che lievi non erano per niente. Almeno per Massimiliano che a se stesso non aveva mai con

cesso nulla.
Staccò due foto dal muro. Com’erano piccoli i figli, l’estate del colloquio preliminare a quell’impiego cui aveva dedicato tutta una vita. Staccò il badge dei congressi con il suo nome, il logo dell’azienda e delle convention per best performer.   Lo fece senza odio, senza sarcasmo. Non aveva la mente abbastanza libera da trovarli grotteschi e farceli entrare entrambi. Bastava il suo nome chilometrico in fondo ridotto in minimi bilanci a polvere sulla scrivania. Da eliminare, rimuovere, sopprimere
Si sforzava di non pensare ai momenti belli vissuti in tanti anni di azienda. I successi, i colleghi, il mondo che cambiava in fretta e anche il suo lavoro che stava al passo ed era diventato stretto. Persino al suo nome così largo  da sembrare inamovibile. Si sforzava di non pensare a quando, fresco di laurea in ingegneria aerospaziale , si sentiva arrivato nel posto giusto.
Salutò i colleghi affaticandosi di sorridere. Capì il loro imbarazzo fatto di frasi che cercavano di essere rassicuranti. Staccò il suo biglietto da visita dalla cassettiera. L’aveva messo come targhetta. Quel nome cosi lungo aveva sempre faticato a starci. Chi lo sa. Forse tutto era un chiaro segno del destino. Un destino ora solo da assecondare, servire con quel nome ridotto a tappetino di una statistica. Astratta eclisse di una sorte, d’improvviso decise di assomigliargli rasandosi a zero e togliendosi la cravatta. Sembrava un altro.  Fedele per l’ultima volta  a  quella sua azienda e forse quel mondo, che non lo voleva più.


sabato 25 luglio 2015

Dieci sogni a sette anni



Sto scendendo dall’ottovolante della giovinezza. Il sole ha le caldane delle vecchie in menopausa negli ultimi giorni, e son contento di essere al verde capelli fluendo. Ai piedi della scaletta c’è un bambino di sette anni magro, sguardo pensoso, che cerca di schioccare le dita.

“ Dì tu. l’hai fatto?” fa il piccolo con fare da bullo scafato.  “ hai realizzato i miei sogni?

E poi niente mi son svegliato. Io a sette anni avevo già capito tutto. Non sarei diventato alto, e uno che non è alto nella vita si deve accontentare di dove arriva. Ma avevo un sacco di parlantina con cui facevo le telecronache dei miei spostamenti e due dita che ti attaccavano al muro.

Come questa cosa dei sogni più o meno. Alcuni realizzati, altri sfiorati, altri ancora scomparsi che se non avessi avuto paura della sigla avrei potuto chiedere aiuto a Chi l’ha Visto? Ma sapete che c’è Donatella Raffai da bambino era un po’ il mio UOMO NERO chè negli anni Ottanta in Rai quando parlavano di scomparse e morti ammazzati non tiravano giù il calendario di   aspiranti conigliette di Playboy come accade oggi  a Mediaset.

Ma comunque. Dicevo a sette anni avevo già capito tutto e mentre tutti giocavano a nascondino io, scoprivo le mie piaghe svolgendo il tema perenne delle mie maledizioni. E dei miei sogni appunto. Ventisei anni dopo, eccone un elenco.



10) avere un K.I. T. T. per amico.  Ché negli anni Ottanta questa cosa degli amiciin carne e ossaera già una cosa superata e s’era innestata  in tutti la convinzione che solo un ammasso di microchip avrebbe potuto spiegarti i cigolii dell’esistenza e i doppiaggi della sorte.

Due decenni dopo, i chip son arrivati ma il cicaleccio delle donne in coda al supermercato è rimasto. Il tanfo e il disagio di chi cerca di superarti ingiustamente pure.



9) Indossare il giubbotto nero di Fonzie o in alternativa quello di Michael Knight. Chè negli anni Ottanta se non avevi un ammasso di chip dietro e un giubbotto nero addosso non eri nessuno. Tranne un tamarro sudato e puzzolente. Ma a sette anni il  mondo si deterge con Neutro Roberts solo nelle pubblicità.



8) Diventare come Piero Badaloni. La cosa può sembrar strana lo ammetto.  Ma a sette anni il buon Badaloni, mi pareva la quintessenza dell’onestà. Di lui mi piaceva la nonchalance con cui gestiva i collegamenti esterni e la maestria con cui teneva in mano pile di fogli.  Mi sembrava un gioco di prestigio. Era solo un modo di tenere a freno anni franosi.   Lo faceva bene e almeno io, gliene ero grato.



7) Scrivere. Dappertutto. Credo d’averlo fatto persino sul retro di una scatola di Zigulì.  Raccontare soprattutto. Qualcosa facendo finta di fare tutt’altro.  Come un miracolo improvviso. Come tutto il resto in fondo.  Anch’io.

6) Bere il Nesquik. Quello vero però. Invece a me è toccato sempre soltanto un certo Orzo Pupo. Il quale grazie a mia madre oggi sarà un uomo con un sacco di grano. E non mi riferisco al cereale.

5) Mangiare le cozze. Che non vuol dire cannibalizzare ragazze brutte. Proprio il mitilo mediterraneo invece. L’ho fatto sempre in viaggio giovane inviato prima di una partita o dopo chissà quale scoperta. A casa mai. Sarà per questo casa mia è uno scrigno inaccessibile. Da tutti. Persino dagli stessi occupanti.

4) Suonare la chitarra solista in una boy band che per noi nati nei mitici anni Ottanta aveva solo un nome e un ciuffo: quello rosso  di Mirko dei Bee Hive che faceva impazzire tutti tranne me che stravedevo invece per Paul che non diceva una parola ma aveva delle camicie e una chitarra color acquamarina griffata Yamaha assolutamente fantastica.

3) Giocare e segnare nella mia ultima partita di calcio. Il fatto che ci pensassi a soli sette anni era motivato dal fatto che sin da settenne ero convinto non sarei durato molti decenni.  Il fatto che dodici anni dopo la cosa si fosse realizzata, fu assolutamente questione fortuita. Così casuale che dopo sette anni di pali e traverse, non ho più toccato un pallone. Era il nove settembre 2001. Due giorni dopo la tragedia delle Torri Gemelle. Che le due cose fossero collegate? Non l’ho mai saputo ma son certo che se queste righe fossero lette da Adam Kadmon c’entrerebbero d’incanto gli Illuminati, Elvis Presley e Michael Jackson. O tutte e tre le cose insieme.



2) Rivedere Blue Jeans. Che, per chi non lo sapesse, nonostante il titolo non era una roba con Nino D'Angelo. Né Genitori in Blue Jeans (Growing Pains). Blue Jeans era il nome italiano di The Wonder Years, questa serie dell'88 - andata avanti fino al '93 e arrivata in Italia a inizio anni 90 alle 18 e 10 su Raiuno - che seguiva le vicende del ragazzino Kevin, raccontate però dal Kevin adulto. Che detta così sembra una minchiata, ok, ma a guardarlo era bellissimo, ed io all’epoca settenne, ero innamorato di Winnie e dei suoi capelli lisci, e questo fatto che tutto era già successo, che il Kevin voce narrante era in realtà ormai un adulto, sposato, con figli, magari pure mezzo calvo, questo ricordare in modo semplice le cose perché una volta sembravano semplici e lo sembravano perché lo erano, era meravigliosamente triste. O tristemente meraviglioso. Una delle due. Blue Jeans era lo Stand By Me - Ricordo di un'Estate fatto telefilm, e senza avventura al centro che non fosse la vita di tutti i giorni. Senza Blue Jeans, forse, non avrei mai scritto i post di questo blog, i racconti di Antonio, sette romanzi sepolti in casa senza passare da Real Time, le poesie che ogni santo giorno riassestano i fondi di questa vita in perdita. Grazie mille, Fred Savage. Sei un amico. E grazie pure a te Mino Caprio che hai dato voce ai grilli parlanti della mia infanzia.

1)Andare a letto e avere dei figli con Kelly le Brock. La conobbi nel 1985 grazie all’insolentissimo film La donna esplosiva in cui dei ragazzini brufolosi mettendo da parte il pongo e l’Altissimo, creano la donna ideale con l'idea di bombarsela. Avevo circa tre anni e trenta dopo ecco che me la ricordo ancora perché serbante a mio avviso le precipue virtù di una buona moglie: amorevole, decisa, bellissima. Me ne innamorai dopo pochi fotogrammi e subito decisi che quando sarei divenuto grande l’avrei sposata. A quanto pare due anni dopo nel 1987 un certo Steven Seagal mi precedette. Un codino non proprio intonato come quello di Fiorello ma un uomo che me le avrebbe suonate comunque. Desistetti quindi come faccio tuttora che ho trentatré anni e ancora sogno qualcuna da amare e con fare da bulla mi chieda: “ Dì tu, lo facciamo?” . “li realizziamo insieme i nostri sogni?




giovedì 16 luglio 2015

Non era



Antonio aveva sempre saputo come dire le cose. Solo che non sempre le aveva dette al momento giusto. Solo che nella sua logica rasata e barbuta non esisteva che certe cose si dovessero dire a parole:  ad un certo punto si dovevano capire,punto.  Capire era la base di tutto. Sapere era l’eroina dei futili.  Una conseguenza esterna cui tutti erano in grado di giungere arricciando il naso e storcendo la bocca in un orgasmo orrendo ed empirico.  Lui al contrario, non era epidermico: era spesso come ruvida corteccia. Una piccola rivincita dal basso della sua tozza sostanza. Perciò Antonio era consapevole di non aver mai parlato dei suoi sentimenti con Domenica, ma era convinto che lei sapesse del suo amore. Che poi, se avesse dovuto metterlo giù a parole, quel coso che aveva dentro, non avrebbe certo usato parole antiquate come amore o innamoramento. Per quello bastavano le torme di cantanti ben disposti a farsi snaturare ogni fottutissima estate per lo jingle di un cono gelato e la linguetta bifida di una Coca -Cola.  In quel momento Antonio stava fuori dalla gelateria e guardava Domenica da lontano. Domenica stava baciando uno di vent’anni  più vecchio di lei. Ecco: l’infallibile equazione secondo cui i soldi fanno uccello stava funzionando ancora una volta, e Antonio con le sue poesie e i suoi Magnum alla nocciola poteva sciogliersi triste.  Nell’incuria del mondo e nella vagina dell’indifferenza.
Antonio ferito nel cuore e nell’anima senza l'Equipe 84 a consolarlo, finse di frugare sul suo taccuino e di infischiarsene. Rimpiangendo di non esser mai stato un grande fan di Mc Gyver  che di sicuro meglio di lui  avrebbe saputo districare i nodi di quel molteplice inghippo,  Antonio si   interrogava su quella cosa che gli fermentava dentro. Non era gelosia: i suoi sentimenti verso Domenica erano troppo tersi perché persino lui li potesse scambiare per volontà di dominio, esigenza di carnale insediamento, sfacciata colonizzazione ventricolare. Forse era stizza. Avrebbe voluto esser lui al posto di quello là, in quel momento. Forse neanche quello però. Era più qualcosa che coincideva con sconcerto, disordine, fiasco. È altre parole che forse non esistevano nemmeno e in quel momento comunque non gli venivano . Assurdo. Lui che con le parole aveva bilanciato la sua vita. Pur essendo dell’Ariete e forse, quella cosa della vita, sarebbe stato meglio prenderla a cornate.
Rivolgeva a se stesso domande che stavano  in piedi solo in teoria. Diciamo pure (con buona pace di Santa Romana Chiesa), miracolo. Circostanza che per Antonio in fondo, era la normalità. “Se io le voglio bene e lei è felice così, allora è questo il suo bene, vero? esatto?”
Ma nessun “Vero!” di conferma era rilevato dalla sua voce interiore  ed ”Esatto”  in quella società completamente sfasata,era solo un brano di Francesco Salvi del 1989 che la radio non passava nemmeno più.
Mentre attendeva segnali, Antonio, avrebbe voluto non avvertire quel senso di fallimento. O almeno avrebbe voluto avere qualcuno cui incolpare.
Antonio non era invidioso, Antonio non era geloso. Aveva passato la vita ad aggrottar il ciglio dogmatico dicendo “ Mi sembra giusto” perché quella cosa non doveva esserla? Boh.  E quell’interrogativo giaceva immoto sulla sua staticità. Perché il problema più importante non era “avere una ragazza di sera” come cantava Adriano Celentano in un navigato vinile del 1964; il problema era che Anto
nio, in quel momento non era.
Antonio voleva  bene a Domenica. Solo non glielo disse mai e ogni volta che la sera tornando a casa incrociava quella dolce insegna, fuori ad aspettarlo c’era solo il gusto amaro dei sogni.



martedì 7 luglio 2015

Andrea Pirlo : uno sberleffo cortese alle leggi della fisica



Andrea Pirlo è uno sberleffo cortese alle leggi della fisica, vivo, vegeto, juventino fino a ieri. Chiomato, calmo, un po’ dolente. Almeno fino a quando non entra in campo e t’insacca una punizione maledetta. Geniale Andrea Pirlo. Con quell’ingiuria pendente sulla vita non andrà all’inferno nonostante tutto. Perché Pirlo come la qui  omessa invettiva è una deviazione dello spirito.  Una fascinazione irrinunciabile del rettangolo verde come dello spiazzo della vita. Maestro Splinter trasmigrato nel Re Leone: la pettinatura è quella.

Bresciano, classe 1979, ha giocato quattro stagioni nella Juventus e vent’anni in serie A senza mai sbronzarsi di riflettori ma altresì, stimolando meditazioni filosofiche del tipo: meglio trequartista, o regista? Inezie,  pirlate  schiodate dal trottare  quotidiano  da  folgori entrate nella memoria collettiva.

 In silenzio come sì addice ai santi, poeti, 
navigatori ed anche a noi.

 Nubi rapite dall’estasi del crepuscolo    incantati a guardarlo splendere, anche dall’altra parte del globo  marinai schietti del tempo.