Trent’anni.
Nell’antro atomico dei propositi più genuini, la
lingua oscilla appesa ai pensieri ed è la voce.
Contratta nel battito abbacinato alla fine dalla luce
ch’ancor soffia dalle vene d’un ricordo.
E così di lui Gaetano Scirea.
Una carezza d’aria d’ali quel pomeriggio nei fili d’un
telefono lontano, s’è fatto più vicino.
Conferendo giusta grazia persino alla morte: fune
strozza quando tradisce il corpo delle cose con la morte disfando l’attimo che
non sarà mai canto.
Perché Gaetano Scirea allucinava libero nella luce è nella
luce v’è qualcosa che mai e poi mai la luce potrà dire.
La forra dove si colta l’acqua terebra e inibisce lo
sguardo inaridito;
niente più lamenti ne gridi raspanti la gola dei
rimorsi:
le cose accadono, la Morte pure e una lacrima non vede
il colpo inflitto come il ramo sfinisce la scintilla d’un nome che sfavilla
ancora ogni qualvolta un’ombra scorrazza libera a filo d’erba e diventa fiato,
spinta, nell’onda nel vento, nel coraggio che manca ch’accarezza le cose e
crepa il sangue nel grumo d’un affanno.
Si chiama gol quasi d’stinto.
È il reggimento d’ogni umana impazienza quando svela
una mancanza.
E così di lui Gaetano Scirea.
Petalo dopo petalo una rosa si fa pozzanghera e il
cuoio si sgonfia annichilito.
Il tifo si fonde in un circuito fedifrago.
Eppure quel nome resta li. Rogo di veglia su cenerini
dissensi.
Qualcuno vanta nei cassetti orgoglioso la sua maglia.
Nell’abbraccio degli amanti non resta che l’infarto
nella pelle.