domenica 30 maggio 2010

L'amore: una porta difficile da scardinare e il gol più bello che un uomo/una donna possa fare


L'amore è uno sport di contatto. In quanto esseri umani, dovremo obbedire a questa attitudine ed esser felici di poter partecipare talvolta a questo infernale e spietato gioco.
Peccato che molte di queste possibili/probabili compagne di gioco, spesso si rivelino portatrici sane di piattole. Ci vorrebbe una squadra di moderni Ghostbusters per disinfestarle. Presto faranno il terzo capitolo della serie. Peccato però che i danni provocati dagli amori infausti restino visibili per anni ed ogni cura si riveli inutile.
Arriva sempre un momento,nella vita in cui un uomo dopo aver superato ogni avversario si trova a dover fare i conti con se stesso e le proprie possibilità. In amore anche se tenti di fare il superduro succede sempre. Il cuore ti fa hop - hop e a quel punto se arrivi al limite dell'area di rigore è quasi un miracolo. Tiri... e.... la palla va ad infilarsi nell'angolo più lontano... e l'apoteosi sembra lì ad un passo....
Ma in porta c'è sempre Buffon e se non sei Messi l'amore è una porta difficile da scardinare.
A quel punto ci vorrebbe la dinamite. Ma quella se l'è presa tutta Willy il Coyote e a quanto ne so, è ancora lì che cerca d'afferrare Beep - Beep.
Inseguirsi senza afferrarsi mai se non quel tanto che ti serve a riprender fiato. E' una neccessità fisiologica e una legge di vita di cui quasi nessuno tiene conto ormai. Se non i santoni indiani e i seguaci di Daniela Rosati e Rosanna Lambertucci in tivu.
A me inseguire non piace. Sarà per questo che sono ancora solo.
Non so quando incontrerò la rete della mia vita. Non so che faccia avrà il gol della mia vita. So però che sarà il più bello che avrei mai potuto immaginare di realizzare e quando mi toglierò la maglietta per la contentezza non mi fermerà nello svolgimento dell'azione estraendo un impietoso cartellino giallo. Mi farà entrare dentro di lei dolcemente , come fosse la cosa più naturale del mondo e sarò felice. Gli schiamazzi che emetterà saranno di puro piacere. Non sarò in fuorigioco.
E' credetemi per me che sono capitato sulla scena della vita quasi per caso e tra mille proteste non sarà cosa da poco.

sabato 29 maggio 2010

L'inutilità del tempo


Il tempo non insegna niente. Lascia solo rimpianti dietro di se e ferite difficili da rimarginare. E mentre in tivù folle di manichini rabbiosi come novelli Redentori annunciano una resurrezzione che non viene mai, io mi chiedo: cosa cambia quando non si ama e non si è amati, o si è amati e non si ama cosa cambia....
Cosa resta di un amore che finisce, o in un finale senza amore cosa resta.....
Noi faremo le stesse cose, cambieremo tre volte al mese,rifaremo gli stessi errori
...quelli che abbiamo lasciato fuori.
Senza voltarci chiederemo amore e affetto a una ragazza di colore che ci dirà le stesse cose in una lingua che nessuno può capire.
Non siamo migliori delle nostre aguzzine. Forse facciamo meno chiasso. Ma a meschinità siamo pari.
Cosa cambia tra il passato ed il presente dentro o fuori la coscienza della gente, cambiano le mode, i discorsi e gli orizzonti, ma è con noi che poi bisogna fare i conti...
Storie nella storia, vecchie storie, nuove nella stessa storia.
Cose già pensate, cose morte e poi rinate in altre cose.

Non basta un bel fisico a giustificare la fatica di una nuova conoscenza. Ci vuole/ci vorrebbe di più. Ma le nostre aguzzine non sono originali in questo e s'accontentano del primo sguardo languido incontrato per caso ad un seminario cui forse non volevano neanche andare...
E'vanno così... così vanno le cose.


E vanno così... così vanno le cose.

E vanno così... così vanno le cose.
E arriverà il giorno in cui potrai restare un po' da solo nel suo cuore,lei lascerà che la rapisca e la contagi il tuo fortissimo chiarore.
E quel giorno riderai
Che ne sarà di quell'amore che hai lasciato per lestrade e in ogni dove,quando per stringerla hai dovuto sempre dire:
ripariamoci che piove!

Cosa cambia quando non si ama e non si è amati,o si è amati e non si ama cosa cambia.
Cosa resta di un amore che finisce, o in un finale senza amore cosa resta.

storie nella storia, vecchie storie, nuove nella stessa storia.
Cose già pensate, cose morte e poi rinate in altre cose.

E vanno così... così vanno le cose.


E vanno così... così vanno le cose.
Il mondo è una grande lavatrice. Economica per giunta. Per quanto ti impegni a comprare stoffe nuove e variegate ti restituisce sempre la solita solfa. E' non è bella. Non è bello.

venerdì 28 maggio 2010

Lupo della steppa


Ha ragione mia madre a dire che con le donne non ci so fare e che sono un lupo solitario, sempre rinchiuso nella mia camera ad ascoltare musica, ad arrabbiarmi con i bambini che giocano felici e a criticare le casalinghe pettegole del mio palazzo quando si fermano tra le scale a raccontare episodi vari della vita sociale di questo paese - corna tradimenti e scappatelle - che mi ha visto nascere e crescere ma che continuo ad odiare, dove ragazzotti di sedici anni sdraiati sulle scale di una banca fanno la loro grassa figura intrattenendo rapporti amorosi con puttanelle brufolose che non hanno ancora completato la pubertà.
Sono un lupo della steppa e e non c'è nessuna Erminia – chi ha letto il libro di Hesse sa di cosa parlo- che possa trarmi in salvo.
Ma a ventotto anni posso dire una cosa certa: Marco Ferradini si sbagliava.
Il suo teorema non può essere applicato alla realtà, sono tutte cazzate.
Non fate come me o vi ritroverete con il culo sprofondato su una poltrona, a mangiare caramelle al caffè e a maledire i figli dei vostri vicini che hanno preso a pallonate la vostra auto.

martedì 25 maggio 2010

Le opportunità dell'esistenza


Non saprò mai cosa vuol dire esser fighi. Fisicamente intendo. Per mia fortuna le ragazze non si conquistano solo col fisico e sono state molte quelle che hanno attraversato la mia vita. Ma so cosa vuol dire esser felici. Oggi lo sono stato. Non siamo soli a questo mondo e il Grande Capo mi ha dato la possibilità di passare l'esperienza accademica con una persona che non ha nulla d'accademico. Un pò come me. Indisciplinato ma affidabile. Quasi paterno in alcune proiezioni. Dolcemente misantropo, il mio compagno d'avventura e di blog si trincera dietro degli occhialoni scuri aggirandosi nella vita e nelle aule come se non gliene importasse di niente e di nessuno. Ma in realta... Osserva tutto e capisce cose che molte di quelle persone che s'affrettano a definirlo cinico e senza cuore rimarrebbero di stucco.
Ma non servirebbe a nulla. Le persone hanno bisogno d'attaccare etichette. E non coglierannno mai le opportunità dell'esistenza. Il mio compagno lo è stato, lo è lo sarà sempre. Alberigo Timioni.
Strettamente ed esclusivamente consigliato alle persone che non hanno paura di spezzarsi la schiena.
Oggi in radio, mentre stava seduto giocherellando con la sedia con un sorriso a 128 denti avrei voluto che qualcuno lo guardasse. Avrebbe capito il significato di un verbo che uso spesso riferen
domi alle cose/e o seminari di poesie cui partecipo: "giocare".
Cosa significa?
Danzare con l'anima. Sentirsi a proprio agio. Amare a tal punto l'oggetto della propria passione da non aver paura a chiamarlo col proprio nome.
Un nome bellissimo. Ma di cui tutti si dimenticano in fretta a Lettere e dintorni.
Non sarò io a ricordarglielo. Il mio compagno di giochi gioirà in questo momento...

sabato 22 maggio 2010

Facebook val bene un contratto


A volte le rivoluzioni non necessitano di morti e fanfare.
A volte basta un viaggio. Un viaggio - studio è il gioco è fatto. Uno stage. Per la precisione. Parola francese entrata nel nostro vocabolario negli anni Ottanta a dirci quello che noi meridionali sappiamo da sempre: si può lavorare, tanto e bene, venir riconosciuti abbastanza e spesso (solo i divi di Holliwood posssono vantare tanto) ma d'assunzione e retribuzione neanche a parlarne.
Ti rimane l'esperienza però. Non tutti hanno l'occasione di farla. E solo per il fatto d'averla fatta devi anche ringraziare. Anche questa non è una novità. Un contratto presuppone infatti, una serie incalcolabile di responsabilità che nessuno vuol prendersi. Nè tantomeno assumersi. E questa una delle ragioni del fallimento del matrimonio e di un sacco d'altri capisaldi su cui si basava l'Italia di tanto tempo fa. Di fronte a certe cose devi solo stringer le chiappe e abbozzar sorrisi.E quanto più o meno ha fatto mia sorella la quale reduce da uno stage in Salento dopo avermi raccontato queste e altre amenità è corsa al mio computer per contattare " "amici" su Facebook alla quale mia sorella si è iscritta proprio oggi.
Per consolarsi ha detto. Micidiale. Come Diego Milito in area di rigore. Ineccepibile.
E' proprio vero: la vita toglie, la vita da.
Mi chiedo se dovevo aspettare l'Inter in finale di Champions dopo trentotto anni per rendermi conto di questo. Banale. Ma l'Italia non è un paese banale? Eppoi non viviamo solo di contatti? Eppoi non siamo tutti mignotte in vacanza?

Tutto finito


Sapevo che era tutto finito, ma stavolta per davvero.
Non sono più lo stesso del 2001 ,quello del viaggio allucinante e distruttivo con tre amici - che non avrei mai più rivisto- alla ricerca di una casa in quel di Perugia.
Non ho più diciannove anni e tanta voglia di fare esplorare e divertirmi, conoscere persone e riempirmi di sigarette e birra all' inverosimile.
Quando l'incantesimo si rompe ed esce fuori la realtà allora ti ritrovi con il culo per aria.
E devi combattere con certe persone che parlano sempre di lavoro e di un tirocinio del cazzo, come se non esistesse altro nel loro cervello da roditore , una sorta di ruota da criceto dove il loro pensiero si allena ad emergere dalla melma dove è sprofondato.
Lasciatemi stare da solo con i mie pensieri; non rivedrò più certa gente e sono felice della mia misantropia .
Di altre ne ho bisogno ma non fatemi fare nomi o liste, sapete già a chi mi riferisco.
Ho conosciuto e abbandonato per strada tante persone durante questi anni come i cani sull'autostrada.
Sono un bastardo e se vorrete fare la stessa cosa con me lo accetto.

mercoledì 19 maggio 2010

Il mio piede sinistro a New York


Una delle cose più difficili nella vita di tutti i giorni è come ammazzare il tempo.
Sembra impossibile in un’epoca nella quale alla fine si trova sempre il modo di sfuggire ad una realtà sempre più opprimente e angosciante ma è così.
Sfuggire, scappare, via lontano dove nessuno ti conosce, può farti domande, indagare su di te, su di me, su di noi sul genere umano che sta sfumando sempre più che si sta dissipando dissipandosi, spegnendo ogni gemito di vita attorno a lui aspettando tacitamente la propria morte. O forse no, in verità io penso sia il mondo già morto da tempo, solo che non lo sa e penso non ci tenga a saperlo. Troppo comodo .E poi dove sarebbe l’effetto sorpresa? E la diretta televisiva? Non c è? Allora non è possibile!
Quelli che mi conoscono affermano che io sia un presuntuoso. Non li smentirò, e in anteprima vi svelerò perché il mondo ha le ore contate,
Il mondo in cui viviamo è assorbito da uno spesso strato di merda all’interno del quale tutto dalle cose più grandi, mastodontiche, gigantesche alle cose infinitamente piccole, sembrano ormai destinate a sparire, disintegrarsi, eclissarsi di fronte all’indifferenza dell’uomo, che ormai non sa più sognare. A tal proposito io l’altra sera ne ho fatto uno grandissimo, straordinario, stupendo che avrei voluto corrispondesse alla verità, o almeno avrei voluto fosse durato un po’ di più, tanto da potermi considerare davvero normale. Totalmente umano. In voi probabilmente non susciterà nulla, ma non importa, ve lo voglio raccontare lo stesso, per farvi rendere conto di quanto siate sciocchi e frettolosi nel giudicare, dimenticando la dignità che può avere un oggetto umile ma indispensabile come una scarpa una di quelle normali, senza fronzoli. Una di quelle che si comprano quasi senza accorgertene. ”Un paio di scarpe in più fa sempre comodo averle a portata di mano. Chissà mai non possano servire!” aveva detto al negoziante stupito per quell’acquisto tanto strano quanto inconsueto. Ero una delle tante quindi. Ho almeno così mi era sembrato di capire dalle parole del mio padrone uno scozzese tale Paul Mc Gregor, 42 anni, meccanico, 3 figli e una moglie a carico e una passione sfrenata per l’atletica.
Già l’atletica. Una passione che aveva sempre covato dentro di sé, ma che il matrimonio affrettato e la nascita prematura dei suoi figli avevano sopito. La fiamma agonistica era destinata a riaccendersi in lui, ne ero convinta. Gli bastava un’occasione e si sarebbe buttato di nuovo nella mischia. L’occasione venne. Ed era di quelle importanti. La maratona di New York. Paul, che aveva sempre letto quasi tutto sulla Grande Mela, non si lasciò sfuggire la ghiotta occasione. Voleva scoprire New York attraverso la maratona. Non era fesso, in effetti, la corsa avrebbe toccato tutti e cinque i quartieri: Staten Island, Brooklyn, Qeens, Manhattan, Bronx.
Più che un corridore entusiasta di partecipare ad una massacrante festa dello sport amatoriale, il mio padrone sembrava d’improvviso essere diventato una sonda pronta a penetrare ed esplorare quella città anche nelle più segrete cavità naturali, anche nelle viscere.
Qualcuno di voi, gabbiani che volate alti sontuosi sopra questo cimitero, in cui sono finita, si chiederà perché continui a dire “ mio padrone”. Ve lo spiego subito, senza indugi. Paul, infatti, suscitando l’invidia delle mie colleghe, aveva scelto me, l’ultima arrivata. Non so per quale motivo e non m’importava. Ma ci pensate da comprimaria in uno squallido retrobottega di un vecchio rigattiere prossimo alla pensione, alla maratona di New York !
Che emozione!!!
Scendendo dal pullman a Staten Island avevo la sindrome di Colombo. Davanti c’era l’America da conquistare. Sin dall’alba la piana di Fort Wadsworth, dove un tempo correvano gli Irochesi, era invasa. Sul prato davanti a me, c’erano 62.523 paia di scarpe. Molte giovani, con lacci eleganti e profili da modella, splendide nei finimenti come purosangue da parata. Mi sorridevano con la simpatia che si riserva alle vecchie zie. Io, indifferente, m’inoltravo stupefatta in quella foresta di gambe che danzavano. Erano gambe bianche, nere, gialle. Proprio di tutti i colori. L’arcobaleno più strano che avessi mai visto.
L’attesa era percorsa da un’eccitazione febbrile. Tre ore, tra tende, stuoie, colazioni sull’erba, (che non si chiamava Tiffany), lenimenti, gente che si svestiva e rivestiva, si cercava, scalpitava, chiedeva.
In quella babele avevano dignità geometrica solo le code alla toilette. Ce n’erano 350 e c’era a cielo aperto, il vespasiano più lungo del mondo: sessanta metri almeno proprio sotto il ponte, che era deserto.
Era un immenso formicaio fremente. Chi si spalmava di vaselina i piedi, le cosce. Chi si fissava meticolosamente, con quattro spille, il numero da gara. Chi stipava i vestiti in borse che poi erano ammassate dentro pullman numerati, in fila infinita. Qualcuno, per proteggersi dal freddo, si copriva le spalle già nude col sacchettone scuro dell’immondizia e lo portava come fosse un abito di Armani.
In quei frangenti anche la semplice carta da giornale diventava paramento.
Stavo sognando: non avevo dubbi. Ciononostante non riuscivo a farmi travolgere dallo scorrere confuso e casuale degli eventi. Potevo a stento seguire i passi frementi di Paul che non stava più nella pelle. E quasi nemmeno dentro di me.
Nel mio vagabondare onirico, scoprivo ora, perfino, due luoghi di preghiera: per cristiani dietro alla cappella, per ebrei davanti. Sopra i muscoli evaporare di speranze, desideri, sospiri. Paul aveva il numero 1982. Era arrivato lì con due amici conosciuti sul posto, Luca e Biagio due ragazzotti calabresi desiderosi di mettersi alla prova in una corsa tanto impegnativa. Benché fossero giovani i due non sembravano essere degli sprovveduti e questo lo si poteva intuire non solo dalla prestanza fisica dei due, ma anche dalle scarpe. I due, infatti, avevano scarpe di gran classe, da maratona. Le Nike di Luca mi avevano sorriso con degnazione. Quelle di Biagio, invece, erano depresse. Da un mese mi raccontarono, non riuscivano a correre più: dopo una ventina di gare di preparazione, i tendini di Biagio avevano ceduto come corde di Stradivari forzate da una mano rude. Non sapevano se sarebbero riuscite ad arrivare in fondo. Coltivavano solo un filo di speranza.
L’approssimarsi della gara non consentiva di concentrarsi sui problemi altrui ma mentre davo un’occhiata al percorso non riuscivo a respingere dentro di me la fatidica domanda: quanto avrei retto?
Si partiva lì dove aveva inizio il ponte. Sotto di noi era il mare. “Guarda! Gli americani fanno tanto i salvatori del mondo e poi… Che schifo”! aveva tuonato la scarpa sinistra di Biagio che colto com’era aveva cominciato a raccontarmi l’origine del mare e di quello che sarebbe stato possibile fare se gli esseri umani fossero stati meno attenti al portafogli e più pronti ad ascoltare i richiami della natura. La discussione (o soliloquio come sarebbe più onesto affermare), era stata interrotta da una nevicata di vestiti che atterravano ai bordi della strada e anche sulle teste. Vecchie tute, golf sdruciti, magliette stinte, guanti e i sacchetti di Armani. Era l’inizio della cerimonia preliminare. Era l’anticipazione del colpo di cannone. L’ultimo colpo. Quello dopo di cui non si poteva più tornare indietro e alla fine del quale (n’ero certa), nessuno di noi sarebbe stato più lo stesso.
Alle 10 e 50 l’esplosione. Una scossa elettrica attraversava la folla. Poi, dopo due minuti in cui sono rimasta immobile, quasi paralizzata, prigioniera nella calca, mi sono mossa anch’io. La partenza fu simile ad un decollo vero e proprio. Il ponte s’alzò per due chilometri tra Staten Island e Brooklyn alto sopra la baia.
I piedi lo facevano vibrare come un’immensa corda musicale toccata mille e mille volte. Non vedevo il cielo: a Paul e me era toccato il numero verde e come a tutti quelli cui era toccato il numero verde era toccato il piano inferiore del ponte, mentre sopra si sentiva il tam – tam dei concorrenti rossi e blu. Eppure la vista era lo stesso mirabile. Ecco laggiù la Statua della Libertà! Ecco la foresta di vetro di Wall Street, l’Hudson, l’East River, e la baia allungata pigramente nel mattino ombroso. New York si schiudeva davanti a noi piena di promesse. Dietro sentivo ansimare”Non ce la faccio. Non aspettatemi”. Dopo dieci chilometri Biagio era ostaggio dei suoi tendini maledetti.
Volavano, invece, le Nike di Luca. Correvano forte, troppo forte. Così dopo venti minuti condotti gambe in spalla e ventre a terra nel tentativo di recuperare lo svantaggio accumulato, le ho lasciate fuggir via e le ho viste, lentamente sparire. Persa ogni speranza di vittoria finale, in accordo con le energie rimaste al mio compagno d’avventura, decisi di terminare lo stesso la gara. Forte di un’andatura meno sostenuta, cominciai a guardarmi attorno. Fu in quel momento che mi resi conto di quanto fossero fallaci i libri e la televisione. La Brooklyn che mi trovavo a percorrere non era più quella tutta verde di Walt Whitman, il poeta. Qualche angolo di strada ricordava Arsenico e vecchi merletti, il film di Frank Capra.
Amabili vecchiette allungavano le mani sopra la strada porgendo the, ma per fortuna mia e di Paul non era avvelenato.
Intanto, io e Paul continuavamo a correre. Uno spruzzo di pioggia mi aveva fatto un po’ pattinare sull’asfalto ridestandomi dalle cupe riflessioni filosofico – letterarie nelle quali mi ero addentrata quasi per nascondere la malinconia stringente che, in quel momento avvolgeva me e la mia esistenza non era comunque tempo di pensare a queste cose profonde. Vi era una corsa da portare a termine. Una corsa che si era complicata maledettamente poiché era cominciato a piovere. A piovere forte. L’acqua macerava la pelle e il cuore. Il dolore piallava infaticabile sopra la corsa. L’umidità era opprimente. Condizioni dure, durissime. A fine gara avrei scoperto l’altro volto della maratona: due morti per attacco cardiaco, dozzine di collassi, centinaia di casi di disidratazione, esaurimento, crampi. Noi invece, eravamo ancora vivi, e poi a quel punto l’avventura aveva assunto dei contorni a dir poco esilaranti.
Era quindi mio preciso dovere aiutare Paul Mc Gregor, colui il quale senza conoscermi mi aveva scelta per quest’impresa, a ritornare a casa, ad uscire da quell’inferno degli elementi che inopinatamente si era abbattuto impietoso su di noi.
Ogni chilometro un rifornimento e io (cioè noi io e Paul intendo), li avevamo fatti tutti.
Mi ero attaccata alle scarpe di una ragazza di Strasburgo, insieme abbiamo valicato il Pulaski Bridge, metà strada, per entrare nel Queens. Quelle scarpe francesi sorridevano timidamente senza parlare. Solo la fatica parlava senza tregua. Ero così stanca che cominciavo ad essere vittima d’inquietanti allucinazioni. Affioravano sogni, incubi, visioni. Sotto il Queensboro Bridge, due chilometri infernali, mi era parso di vedere il Pequod, la baleniera del Capitano Achab. Ma Moby Dick non era laggiù, nell’East River. Era dietro di me, tra i tralicci d’acciaio, e stava per raggiungermi.
Ma fu un momento, perché ecco lì dietro l’angolo Manhattan, fiorita di grattacieli, era la salvezza. Così mi ero buttata giù a rotta di collo, fuggendo e all’uscita del ponte, avevo tamponato una scarpa messicana, che com’era lecito attendersi, aveva reagito col furore del gallo da combattimento. La voglia di arrivare era tanta, troppa, figuriamoci se avrebbe potuto fermarmi un messicano qualsiasi. Non ebbi nemmeno il tempo di pensarci perché subito c’era la famigerata First Avenue. Un rettilineo di quattro chilometri: micidiale. Un vero labirinto. Correvi ed eri sempre nello stesso punto.
In quel momento mi ricordai che Paul aveva nel taschino venti dollari utili per il taxi in caso di ritiro. In quel momento pregai con tutte le mie forze Paul di fermarsi. Dopo 32 chilometri di corsa la prima resa. Lo confesso, non ce la facevo proprio più. Ormai da diversi chilometri andavo solo con la forza della disperazione e lì a dieci chilometri dall’arrivo ebbi un crollo. Mi sono messa a camminare. “Au revoir” mi sussurrarono le scarpe francesi. Non le ho riviste più. Ma mi svegliai. Quel saluto così irridente nei confronti miei e del mio compagno mi suscitarono dentro una rabbia che sfogai tutta nella discesa del ponte che porta nel Bronx dove mi rilancia. Mi dicevo cercando forza nell’autosuggestione: ”SCAPPIAMO VELOCI DA QUESTO QUARTIERE maledetto, anche se a dire il vero non era proprio così, perché il sorriso dei bimbi neri aveva la bellezza delle aiuole in fiore.
Siamo arrivati a Harlem a ritmo sincopato. Non so come stesse Paul, in quali condizioni fosse. Io personalmente, non coglievo più l’armonia delle band che facevano chiasso lungo la strada. Percepivo solo, col grido immenso della folla, un gigantesco, elementare, monosillabo “Vai! Vai!”
Ed alla fine ecco laggiù, inaspettato, seducente come un miraggio Central Park!
C’erano ancora quattro chilometri. Eppure il dolore, magicamente, tramutava in estasi. Ecco l’edificio del Guggenheim Museum di Frank Lyod Wright. Ecco il Metropolitan. Era come se, lungo la strada, ci fossero Le donne al bagno di Gauguin.
Come se perfino i Giocatori di carte di Cezanne, così assorti, per noi avessero sospeso la loro eterna partita. Qualcosa stava per sfuggirmi di mano, questa fastidiosa sensazione di sorpresa e d’impotenza insieme, si fece più netta, quando m’imbattei nell’obelisco di Cleopatra. Avrei potuto fare di tutto e di più se non fosse che un impedimento più subdolo di qualsiasi altro mi riportò all’umana e miseranda realtà. Era una voce. Umana anch’essa. La voce di chi mi vuole bene. La voce per cui sopporto la durezza del vivere e con cui deciderò dove andare una volta che tutto sarà compiuto. La voce di……… non occorre sappiate chi sia. Sappiate solo che strillò. Strillò tanto forte che svegliarmi fu un attimo. Non ricordo bene cosa mi disse. Qualcosa tipo: “Ma che sei in trance? Svegliati! Stai sognando!
Certo. Sì è vero: avevo sognato. Ed era stato un bellissimo sogno. Un’esperienza bellissima.
Ma adesso era venuto il momento di tornare a lavorare. Però quel sogno a distanza di anni mi ha lasciato una curiosità, un dubbio inevaso.
Allora voi gabbiani che avete le ali, volate fino a New York. E ditemi se, al Central Park l’obelisco di Cleopatra c’è per davvero

Dedicato a tutti quelli che sanno ancora sognare e guardare oltre le apparenze di un piede sinistro che non può volare. Ma a quello d’altra parte ci pensano i gabbiani.

domenica 16 maggio 2010

Onore ai nerazzurri e de profundis bianconero


Sono contento. L'Inter ha vinto il suo diciottesimo scudetto. Sembrerebbe strano vista la mia fede bianconera. Ma di fronte alla generosità solitaria (Massimo Moratti e i suoi soldi) bisogna inchinarsi. Alla bravura collettiva (Mourinho e i suoi campioni) anche.
Quindi chapeau e discorso chiuso.
Una dirigenza (quella bianconera), che cambia quattro allenatori in quattro anni non può parlare.
Sarebbe stato meglio non telefonare anche.
Ma questa ormai e storia vecchia .
Come questo campionato ormai in archivio.
Non resta che aspettare i Mondiali. Ma non ci conterei troppo. Ci sono sette bianconeri. E se il buongiorno si vede dal mattino... Prepariamoci a brutte figure in serie.

lunedì 10 maggio 2010


È vero, ammetto la mia debolezza informatica.
Sono iscritto a feisbuk da più di un anno e l'ho fatto per un motivo primario indispensabile ma nascosto dietro la fasulla motivazione del ritrovare “ amici” su internet : spiare le persone.
Mi piace guardare le loro foto – specie se sono ragazze in costume o ad un festa in discoteca – ma mi piace ancora di più leggere le frasi stupide di alcune persone riguardo alla loro formazione scolastica, i loro sentimenti o peggio ancora, persone che si sono vendute il culo per avere i loro quindici minuti di celebrità.
È un meccanismo perverso e abile : più amici ( se di amici si può parlare) hai in bacheca e più sei forte, conosciuto.
Io che ho “solo” 50 contatti sono un novellino rispetto al nostro presidente e al suo vice, che ne vantano rispettivamente 821 e 860.
Dovrei rimediare camminando sul ponte Bucci chiedendo l'amicizia a ogni persona - professori compresi - che incontro ( che è poi la cosa che fanno loro).
Non ne sarei capace perché mi blocca la pigrizia e l'incapacità.
Raccontare frottole non è il mio mestiere, imbambolare ragazze e ragazzi con promesse mirabolanti neanche.
Ma forse questo lo sapete già.

mercoledì 5 maggio 2010

Zingari


Li avevo sempre visti raggruppati davanti alla chiesa al supermercato o all'incrocio in attesa di lavarmi il vetro scacazzato da qualche piccione di passaggio, ma mai aggirarsi fra i libri polverosi di una biblioteca.
Zingari.Due. Scuri, malvestiti e puzzolenti ( non sono un perbenista), con le nike e le t -shirt firmate prese dai cassonetti della caritas, mi hanno dato un'immaginetta di Gesù sorridente e rassicurante: un hippy biblico avvolto da una luce mistica.
Dopo aver aspettato una manciata di secondi e avermi chiesto dei soldi per una cosa che non volevo ma che, inconsciamente, ho conservato nel libro quasi come un portafortuna- un simulacro contro la mia iella quotidiana- vedo spuntare un coglione con un cappellino alla Joe Falchetto, che per far ridere le sue amiche li caccia via dalla biblioteca e si gode il meritato trionfo.
Non credo in una giustizia divina ma vorrei credere nella reicarnazione per vedere chi è stato preso a pedate in questa vita- zingari barboni e disadattati vari - avere una rivincita.
in quanto a me vorrei solo rinascere bello come George Clooney e ricco come Berlusconi.
Ma senza i suoi guai giudiziari.

domenica 2 maggio 2010

Servo


Se il lavoro nobilita l'uomo, se è il mio lavoro ( estivo) a rendermi nobile, allora preferisco rimanere povero e continuare a fare la solita vita di sempre.
In un' epoca in cui il dramma del lavoro è all'ordine del giorno, lamentarsi per un impiego di due mesi è una cosa assurda ma provate per un attimo a mettervi nella mia condizione.
Sono intrappolato in un tabacchino, senza via d'uscita, con un viavai continuo di esseri umani, carne da macello senza maglietta e col pelo abbondante sul petto come a rimarcare la pura essenza mascolina; bikini striminziti racchiusi in cosce e seni abbondanti da cui straborda il lato peggiore di Napoli e provincia, quella Napoli che ha dimenticato i suoi grandi personaggi e che
è cresciuta nei palazzoni grigi di Scampia Secondigliano e periferie sconfinate.
Sei solo un servo e non c'è cultura che tenga difronte a gruppi di ragazzotti imbrillantinati che chiedono ricariche telefoniche e sigarette.
Ed è la sera il momento peggiore, quando nel buio di una movida calabrese corri alla ricerca dell'auto per trovare conforto in una doccia, una sorta di misogi casalingo che ti liberi dalle impurità della mente e del corpo.
Con la speranza che il domani sia un giorno migliore e che il primo settembre arrivi presto anche quest'anno.