martedì 14 agosto 2012

Confessione d'un teppista

Non a tutti è dato cantare,
non a tutti è dato cadere
come una mela ai piedi degli altri.
E’ questa la confessione più grande
che possa mai farvi un teppista.
Io vado a bella posta spettinato
col capo sulle spalle come un lume a petrolio.
Mi piace rischiarare nelle tenebre
l’autunno senza foglie delle vostre anime.
Mi piace quando i sassi dell’ingiuria
mi volano addosso come la grandine d’una ruttante bufera.
Stringo allora più forte con le mani
la bolla tremula dei miei capelli.
E’ così dolce allora ricordare
lo stagno erboso e il rauco suono dell’alno
e mio padre e mia madre viventi in qualche luogo,
che s’infischiano di tutti i miei versi
e mi amano come il campo e la carne,
come la pioggerella che a primavera rende soffice il verde.
Verrebbe a infilzarvi con le forche
per ogni vostro grido contro di me scagliato.
Poveri genitori contadini!
Siete di certo diventati brutti,
temete sempre Dio e le viscere palustri.
Potreste almeno capire
che vostro figlio in Russia
è il migliore poeta!
Il cuore non vi si copriva di brina per la sua vita,
quand’egli si bagnava i piedi nudi nelle pozze autunnali?
Ora invece cammina in cilindro
e con le scarpe lucide.
Ma sopravvive in lui l’antica foga
del monello di campagna.
Ad ogni mucca delle insegne di macelleria
di lontano egli manda un saluto.
Ed incontrando i vetturini in piazza,
ricordando l’odore di letame dei campi nativi,
egli è pronto a reggere la coda d’ogni cavallo
come lo strascico d’una veste nuziale.
Io amo la patria.
Amo molto la patria!
Anche se una mestizia rugginosa avvolge i suoi salici.
Mi sono gradevoli i grugni imbrattati dei maiali
e la voce dei rospi sonante nella quiete notturna.
Io sono teneramente malato di ricordi d’infanzia,
sogno la bruma delle umide sere d’aprile.
Come per riscaldarsi il nostro acero
s’è accoccolato al rogo del tramonto.
Oh, quante volte mi sono arrampicato sui rami
a rubare le uova dai nidi dei corvi!
E’ ora sempre lo stesso, con la cima verde?
La sua corteccia è dura come prima?
E tu, mio diletto,
fedele cane pezzato?!
La vecchiezza ti ha reso stridulo e cieco
e vaghi per il cortile, trascinando la coda penzolante,
senza più ricordare dove sia la porta e dove la stalla.
Come mi sono care quelle birichinate
quando, sottratto a mia madre un cantuccio di pane,
lo mordevamo insieme uno alla volta,
senza avere ribrezzo l’uno dell’altro.

Io non sono cambiato.
Non è cambiato il mio cuore.
Come fiordalisi nella segala fioriscono gli occhi nel viso.
Stendendo stuoie dorate di versi,
vorrei dirvi qualcosa di tenero.
Buona notte!
A voi tutti buona notte!
Più non tintinna nell’erba del crepuscolo la falce del tramonto.
Stasera ho tanta voglia di pisciare
dalla finestra mia contro la luna.
Azzurra luce, luce così azzurra!
In quest’azzurro anche il morir non duole.
Che importa se ho l’aria d’un cinico
dal cui sedere penzola un fanale!
Vecchio e bravo Pegaso straccato,
mi occorre forse il tuo morbido trotto?
Sono venuto come un maestro austero
a decantare e a celebre i sorci.
Simile a un agosto, la mia zucca
si effonde in vino di capelli tumultuosi.
Io voglio essere una gialla vela
per quel paese verso cui navighiamo.


Sergej Aleksandrovič Esenin


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