Nel caso del post di oggi, gioco forza,
vanno fatte non una ma due premesse.
La prima è che Adriano Celentano, nella
stagione postbellica imperniata sulla rinascita emotiva ed economica della
nostra nazione, è stato un clamoroso esempio di genialità e voglia di fare.
Non vanno dimenticate, affatto, le sue
battaglie insistite in difesa dell'ambiente, o anche la capacità rabdomantica
con cui negli anni Settanta avrebbe pescato smorfie e parole apparentemente
incongrue per imporre al successo una canzone cubista come
"Prisencolinensinainciusol".
E d'altronde, indimenticabile è la
tenerezza un po' analfabeta e un po' intellettuale -quando a dargli sostanza e
poesia interveniva gente come Paolo Conte- di certe sue canzoni estive, leggere
nell'aria almeno quanto certi baci e carezze rielaborati nei ricordi.
Dopodiché arriva la seconda premessa,
che riguarda la figura artistica di Adriano Celentano aggiornata alle 08,
15 del 6 gennaio 2018.
Il ritratto di un cantante senza più
eccessi d'estro né buoni maestri che, per non morire di noia in una villa
brianzola, ha pensato di dedicarsi negli anni alla demagogia sermonale.
Roba che sa di inutile, almeno per
milioni di italiani in overdose di banalità e furbizie, i quali vorrebbero un
passo indietro del guru Adriano sul fronte del suo pseudo impegno sociale, e
magari un passo avanti verso nuove soluzioni canore (o cinematografiche, perché
no).
Ma comunque:
aldilà delle impressioni personali,
dell'evidente involuzione dell'ultimo Celentano, e della sottolineatura dei
suoi gloriosi trascorsi, Celentano, a questo punto, non ha più nulla da dire e
tantomeno predicare, neanche potendosi preparare con mesi d'anticipo. Neanche
accoppiandosi con Mina (lei sì ancora davvero straordinaria).
Certo la sua guerra (dei bottoni) resta
sempre la stessa, in teoria, incentrata sul ragazzo della via Gluck che a ottant’anni ormai raggiunti combatte ancora
per la tutela delle foreste d'oltreoceano e i diritti umani del cuculo di
Abbiategrasso, oltre che per il fango di miseria che ha colpito negli anni la
popolazione italiana.
Ma tutto questo, ormai, ha il sapore di
"Truman show" almeno quanto Banderas nello spot che lo ha fatto
mugnaio.
Bollito non più misto ma integrale,
insomma, il favoloso folle di "Yuppi Du" stenta a dir poco ormai quando straparla di malefatte e
malfattori.
Invece no.
Perché sospinto dalla consapevolezza del
proprio fine corsa, e del rigor show che provocano le sue ciacole Adriano Celentano gioca in parallelo l'arma
più subdola e geniale avente ancora a disposizione:
Sfrutta, cioè, i suoi vecchi e nuovi
successi, per intessere il Grande Sermone con le loro liriche, combinando le
dolcezze di una voce eterna (un po' stonata, a volte? ),con ’effetto
psichedelico di concetti e moniti altrimenti insopportabili
Un combinato disposto capace di non
smontare l'euforia dei canzonettari puri, ma anche di mungere l'apprezzamento
snob di chi s'inchina e s’è inchinato negli anni, a testi a volte postatomici come «si è spento
il sole e chi l'ha spento sei tu», a volte metacristiani come «mi ricordo che
un giorno, in mezzo a noi, venne un tipo che ogni cosa pensava giusto, e la
fonte della vita era in lui», o a volte ancora strettamente apocalittici tipo
«affamati come il mondo, viviamo in crudeltà, e tutto sembra perso, in questa
oscurità».
Tanta roba, direbbe il più trucido degli
intellettuali su piazza.
Anche se, in fondo, il vero trionfo arriva
ancora e sempre quando, liberato dai moscerini
della contemporaneità, Celentano canta come ai tempi d'oro
"Prisencolinensinainciusol":
canzone, è vero, con un testo fatto di
frasi vuote. Ma appunto per questo capace di anticipare, già negli Settanta, il
nulla che ora ci ritroviamo dentro.
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