sabato 20 febbraio 2016

La parte più dignitosa del suo sguardo

Non era una brutta giornata, non lo aspettava niente di tragico. Ma  Antonio quel giorno non aveva  proprio voglia di uscire. Si preparava con cura davanti allo specchio del bagno. Si limava per bene le unghie. Si stirava le dita  Le guardava .
Abbi sempre cura delle tue dita ché  ci son un sacco di soldi dentro. E quanto gli mancava Nora che gli  diceva così. E quando lo diceva, Antonio sorrideva di nascosto sorpreso di come le donne potessero vedere tanto in là un qui che ancora non c’era.   Era il 6 novembre 1997. Fu in quel momento che prese una ossessione cosmica  per la  lettera n e la m. Era una stupidata ma quel ricordo lo scaldava ora in un modo diverso: un po’ lo rincuorava, un po’ sottolineava il disagio per quel freddo fuori. Fuori- un luogo assolutamente ipotetico dove nessuno parla, ma tutti sbavano cercando di dire.
 Antonio sarebbe voluto restare nel proprio sgabuzzino quel giorno.  Non andare al lavoro, non vedere nessuno, passare la giornata a fare un abisso  di niente. Magari a preparare gli scatoloni, che il trasloco era vicino. Magari prendersi il lusso di vederla sgusciare piano quella giornata , tenendo in mano di volta in volta una tazza d’orzo, un buon libro, un telec
omando, un rimpianto smangiucchiato ai bordi . Senza un ordine preciso. Ché al caos organizzato Antonio  era  abituato.
Ma quel giorno c’èra da andare . Si doveva. Pensava questo Antonio , per farsi coraggio; per rimuovere quel macigno davanti alla entrata dello sgabuzzino e andare fuori. Dentro la nuova giornata, in quel sole buio di febbraio  monco di braccia calde ad  attenderlo.

Il marrone è un bel colore, pensava indossando il cappotto con la mano ferma e  languida di un donnaiolo navigato. E intanto che lo pensava, nello specchio si vedeva cereo. Colpa di quella lampada a risparmio energetico, meno umana e vivace di quelle a incandescenza permanente  che aveva da bambino, a casa. Sarà che fuori dalla finestra non c’èra quella fila di montagne informi che da piccolo dislocato dai nonni,  lui chiamava per nome. Sarà che anche quella vita era un po’ a risparmio energetico.
Cercava pensieri positivi Antonio traccheggiando pigro sull’androne e nel farlo andò a scavare in fondo a un alito immenso. Quando riemerse, pensava alla scrittura. Pensava alle vibrazioni di quella macchina per scrivere  rossa sdraiata in un angolo della stanza da letto. Si ripromise di correggerla meglio quella storia: di trovare nella testa il giusto estremo, il punto di svolta necessario perche tutto scorresse meglio  . Proprio lì al centro della fronte, un po’ più sopra  gli occhiali  la parte più dignitosa del suo sguardo.
Proprio lì dove sentiva l’istinto di isolarsi, di restare coperto, di non subire impietosi assalti dal mondo . La stessa carica che invece, quando scriveva, sembrava trasformarlo. Socchiudeva gli occhi e volava. E in certe sere eccezionali, gli sembrava che anche il foglio fosse attratto da quel fiume  in piena di parole fluente tra le dita. Gli sembrava di avere un potere immenso, simile a quello dei suoi sogni di bambino: quando si vedeva su un palco con Cristina D’Avena cantare una sua canzone e studiava per ore quell’inchino leggero, quello da fare quando tutti applaudono sperando in un Bis. Quando tutti sembrano concordi e felici di vivere tutti sotto lo stesso cielo.
Forse è questo che gli mancava. L’occasione di fare quell’inchino. La speranza di vedere qualcuno alzare gli occhi e guardarlo  nei suoi. Proprio lì:. al centro della fronte, un po’ più sopra  gli occhiali  la parte più dignitosa del suo sguardo.
Dove sgorgava, dove straripava, un fiume in piena .


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