Il
23 maggio 1992 avevo 10 anni un sacco di capelli in testa, delle gambe
bellissime e con Careca finii il mio secondo album Calciatori Panini. Era
sabato.
Quel giorno, imparai che per amor di Verità e Giustizia
si può anche morire.
La
lezione più autentica e vera però la ricevetti dopo, il giorno dei funerali.
Ad
impartirmela fu Rosaria Schifani la
moglie dell'agente Vito che morì assieme al resto della scorta di Giovanni
Falcone nell'attentato del 23 maggio 1992.
Il suo pianto, quelle lacrime, sottolineano
ancora oggi a cuore vivo, che neppure la folgore delle mafie e le
complicità inconfessabili con brandelli di Stato possono annientare la volontà
delle persone oneste, le quali a testa alta sanno morire ma anche risollevarsi
dopo l'abisso del lutto.
Oggi, per l'appunto, Rosaria Schifani non è una
donna sconfitta. Dopo la scomparsa del marito è riuscita a ricostruirsi una
vita, una famiglia, all'interno della quale c'è il figlio suo e di Vito che ha
vent'anni e studia all'accademia della guardia di finanza.
Una storia tragica e paradossalmente bella,
dunque, con connotati quasi religiosi, tanta è la fede con cui Rosaria ha
continuato il suo cammino dopo la frase che pronunciò in chiesa a ridosso
dell'attentato; quel «Io vi perdono, ma vi dovete mettere in ginocchio» che fa
ormai parte del nostro calvario storico e della marcia verso una democrazia mai
abbastanza compiuta.
E proprio da lì, da quella chiesa carica di
lacrime e gente che celebrò i morti di mafia del '92, dovremmo ripartire per cercare di accorciare le distanze da una
tragedia che non può essere trattata solo come storia marchiata da un insufficiente e odioso
“è accaduto”.
Ha scalciato, Rosaria, fisicamente, e inveito
contro i bastardi mafiosi che le hanno mutilato l'esistenza, punendo a morte un
agente che -ha ripetuto più volte lei, negli anni, quasi il destino potesse
ancora essere modificato- quel giorno non doveva prestare servizio, e solo per
caso è accorso con i compagni di lavoro a scortare Falcone e la moglie
Francesca Morvillo.
Lo stesso cumulo di dolore, e indisponibilità
alla resa dovrebbe emergere anche dagli altri luoghi di questa storia sia nel
punto dove saltò per aria l'auto di Falcone, sia nella caserma dove lavorava il
marito, sia nel palazzo di giustizia di Palermo.
Lì, infatti, si trovava la camera ardente che
ha accolto Vito Schifani. E sempre lì, vent'anni fa, la vedova Schifani chiese
al giudice Paolo Borsellino -anch'egli poi trucidato da Cosa Nostra-: «Ma chi
sono questi mafiosi? Hanno la faccia sporca come li ritraggono di solito?».
«No», rispose lui, «il mafioso ha l'aspetto
pulito, è difficile riconoscerlo». Al che lei: «Quindi ci sono anche qui?», e
intendeva dire «sono anche qui, proprio qui, nella camera ardente?». «Certo»,
rispose Borsellino, «di solito chi ammazza sta dietro al feretro».
Ora, accostando a queste parole il fatto
che, due decenni dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, ancora non è stata
individuata la verità, e l'identità di chi ha voluto quella scia di sangue,
viene da porsi un dubbio:
“Chi ha vinto”? O sarebbe più giusto ammettere «Abbiamo perso
tutti»?
Soltanto la giustizia, quella che ancora
resiste, può aiutarci a trovare la risposta.
Talvolta
l’abbiamo chiamata sogno, qualche altra utopia, oppure, scoraggiati, abbiamo
finito col chiamarla illusione.
Da
funamboli della parola scritta ci siamo alati definendola castello in aria e ci
hanno pisciato sopra con tanto di compianto, bistrattato monumento.
Ma
è soltanto la vita che creiamo il fiore della speranza. Quello da cui ripartire. Anche dopo, quando
tutto sembra finito, la distanza tanta e la disperazione troppa.
Insieme
a Rosaria e tutti quelli che sanno e respirano di libertà.
La
voce della libertà non tace: si risolleva e grida più forte.
Non
può tacere se il fumo la soffoca o se esplosioni le spezzano il fiato, non può
sotto la polvere restare in silenzio, non è muta tra fiamme e macerie.
Questa
è la differenza che i vili mai riusciranno a capire.
Questo
ho imparato da Giovanni Falcone, sua moglie,e la sua scorta ventisei anni dopo.
Non è poco e li ringrazio. Con la mano sul petto e una ferita nel cuore. Ancora
aperta. Sempre.
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