lunedì 14 febbraio 2011

Marco Pantani un campione dal volto umano, troppo umano


Era il 14 febbraio 2004. Un sabato speciale. Quello riservato alle delicatezze degli innamorati. Buono anche per sancire la lenta agonia di un disamore. Di un distacco. Dalla vita. Da tutto.
E’ così che finisce la vita. E’ così che va quando si decide di staccare la spina.
E’ così che è morto Marco Pantani.
Il giorno dopo poi, tutti a chiedersi cos’è successo, com’è potuto accadere.
La verità è che quando uno smette di vivere smette e basta.
Era grande e vittorioso con la bandana del Pirata, a cavallo di quella bicicletta con cui divorava le montagne del Giro e del Tour. Egli l’amava, ricambiato, di un amore speciale, Passionale e rabbioso come solo i grandi amori sanno essere. Un amore che sapeva riconoscere anche chi non era esattamente un patito del ciclismo. Un amore che andava contro tutto e tutti. Come il suo modo d’intendere il ciclismo. Furioso e cieco. Un modo di star sui pedali che abbatteva qualsiasi strettoia razionale e approdava nella leggenda. Perché prima che gli avversari, egli batteva le convenzioni fisiche affidandosi a gambe d’acciaio e a un coraggio leonino.
Ma era un timido gattino, anche se nessuno immaginava di vederlo finire a quel modo. Il suo ultimo atto è stato assurdo. Ha perso senza combattere, e nessun uomo o donna che ami davvero lo sport può riuscire ad accettare un simile commiato. Doveva guardarla negli occhi la paura di vivere, come guardava i flash dei fotografi e gli occhi lucidi dei tifosi che lo acclamavano dopo una vittoria. Non doveva cercare uscite secondarie. Scappatoie. Vie di fuga. Dopo le luci della gloria dopotutto, c’è solo il buio dell’abisso.
Il ciclismo c’è l’aveva nel DNA come il profumo del mare e la voglia d’avventura.
Imprese matte e disperate avvolte in veli argentei impregnati di sogni. Sogni straordinari imperlati di fatica e sudore. Quel sudore che gli aveva consentito di primeggiare su montagne proibitive come lo Stelvio e l’Izoard. Montagne imperiose ed antiche che parlano di uomini anonimi ed eroici con i tubolari incrociati sulle spalle, forature nel fango, riparazioni avventurose, gregari pronti a tutto per far trionfare il loro capitano, di battaglie epiche e senza respiro. Non solo contro gli avversari. Elementi che battono qualsiasi trovata tecnologica e lasciano l’uomo al centro di una sfida, bella da vedere, ed eccezionale da raccontare.
Poi arriva un po’ di polvere bianca e tutto finisce nel codardo buio di una sconfitta cocente.
Egli era fortissimo sui pedali, ma questa forza non basta ad affrontare le alture della vita.
Anche i lottatori di wrestling muoiono se non rispettano il copione della loro colorata messinscena.
Fuori della pista, una volta spente le luci della ribalta, nella vita ognuno, è pronto a giudicare l’integrità e gli ideali di tutti. Anche lui, una volta sceso dalla bicicletta, era solo uno in mezzo alle burrasche della vita. Non l’ha capito. Ha vissuto di luce riflessa dissipandone scioccamente gli ultimi bagliori.
Inutile e pleonastico ogni riferimento alle ingiustizie subite, alle infamanti accuse di doping.
Il problema si era impossessato di lui da tempo. I flash servivano solo a confondere le idee.
Fuori da tutto, tutti i suoi tifosi desideravano solo rivedere il suo sorriso, ritrovarlo fuoriclasse nel ciclismo e campione nella vita.
Avrebbero voluto guardarlo ancora negli occhi. Perché è bellissimo vincere quando tutto è avverso. Lo aveva già dimostrato. Doveva rispondere a colpi di pedale, a quell’accusa. Solo quelli. E poi tutti lo avrebbero aspettato per festeggiare.
A quella festa ci sarebbero stati davvero tutti, a braccia alzate come dopo una sfiancante volata, per stringerlo al petto.
Lui invece, è svicolato nel buio e ha preferito abbandonarsi all’ultima tragica cavalcata lasciando tutti a bocca aperta. Un’ultima volta. Un’ultima tragica volta.

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