Vinta
la luttuosa riverenza del debutto, Sanremo si palesa per quel che è: uno
spettacolo nazional – popolare al limite del carnascialesco utile a celebrare i
propri miti (Totti), e lusingare turbe adolescenziali ispessite dal botox e il
talento (Robbie Williams).
A
schiudere tal provinciale orizzonte, ha pensato Maria abbigliata a bruscolinara
provetta ridondante custode di un portachiavi feticcio di Carlo Conti il
conduttore – direttore artistico e chi più ne ha più ne metta di questa
edizione del Festival.
Immagine
più significativa di quanto possa sembrare quest’ultima; racchiude, infatti,
l’incapacità tutta umana di trattenere il presente, custodire l’attimo, senza
farne memoria e idolo.
Circostanza
che mette al tappeto le buone intenzioni cui la seconda serata sembrerebbe
rivolta: la scoperta di suoni giovani e controcorrente subito imbastarditi e
reietti da tonfi rochi e infranti.
A
Sanremo accade purtroppo e Marianne Mirage meritava tanta delusa e compianta
menzione.
Anche
perché eliminata lei e i suoi bellissimi riccioli, Sanremo è la solita discesa
negli inferi dei difetti italiani tra intermezzi troppo lunghi e Robbie troppo
breve.
Diciamolo:
tra il depression pop di Masini, il vampiresco Bravi e il gorilla di Gabbani
l’ex Take That avrebbe meritato più spazio.
Ha
limonato duro invece risvegliando gli
ormoni arrochiti della Maria (che, Maurizio, si sa, a 78 anni ha rotto lo sgabello), ma anche le spoglie di un Festival altrimenti stretto forte al suo piccolo mondo
antico di mamme defunte, romanisti orbi
e gobbi malfermi utili a macinare affetto, simpatia e solidarietà perché l’imperfezione umanizza, il fato è oscuro e
lastricato di vanità.
Ok
se lo canta la bellissima Giorgia di iersera forse il concetto è più chiaro ma
in un mondo, dove l’onestà quotidiana diventa eroismo da palcoscenico va bene
tutto.
Anche
che una scimmia nuda balla e vince il Festival.
Regressione
utile e forse sacrosanta per un format vecchio di sessantasette anni, che a
colpi di tradizione e immobilismo ha resistito fino ai giorni nostri,
inciampando rumorosa nei suoi stessi limiti: quelli che impediscono alle
giovani generazioni di proporsi per più di tre minuti in scaletta rovinando
sghemba sulla chiocciola ruvida viscosa e affamata della contemporaneità.
Parola
lunga e fastidiosa quando ancora accoglie D’Alessio, Al Bano e Ron rovesciando sul pubblico a casa ciò che intimamente non sente e afflitto
subisce.
Come in tribunale, il massimo della pena.
Ammazza, impietoso.
RispondiEliminaMeno male che non lo sto seguendo, dunque^^
Moz-
Great read thankyouu
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