Lungo viale di maldicenti note, Sanremo
si prende una pausa dalle proprie modesterie cantanti concedendosi uno struscio
deciso e scaltro contro l’onusto masso della
nostalgia canaglia.
Non solo omaggio all’Al Bano presente e tenue di queste sere ma perché tipico del
passato è la capacità d’attaccarsi al midollo rappresentando testardo se stesso
e poco importa se hai 105 anni e non si capisce nulla di quanto rantoli. Un mazzolino di fiori per l’andato
a Sanremo ci sarà sempre. Se poi esistono levatrici capaci di sfornare
settemila bimbi in anni di accudenti
mattane un motivo, (come cantava Celentano nel 2005), pure.
Quale?
quell'incapacità globale
di guardarci addosso, e di accettare la vergogna per tornare alla dignità.
Assai più facile,
invece, è mascherarsi in qualche modo e tirare avanti.
Non a caso, "il
Festival di Sanremo è un programma
campione d’ascolti.
Consolatorio e
sciocchino assieme, racchiude il cumulo delle paure che ci portiamo appresso:
Schiuderle sorvolando su un’intesa
Conti – De Filippi ritrosa e inconcludente (dopo tre serate si può dire: i due avvezzi
centravanti d’area di rigore e luci
della ribalta, insieme si pestano un po’ i piedi penalizzandosi a vicenda), è
stato salutare, sorprendente e prezioso.
Come altro definire l’”Amara terra mia” di Ermal Meta millenaria
matrona di voglie sensibili e presenti, oppure “Le mille bolle blu” di Lodovica
Comello brava a gorgheggiare sul passato e pronta a lanciarsi sgambettante e
allegra verso un luminoso futuro riscattante intera l’abulia tenera e sospesa
della sua canzone in gara.
Perché poi il pericolo di una cover ben
eseguita è proprio questo: farti dimenticare tutto il resto.
Come non detto o non scritto se volete
andando avanti.
Ad evitare il rischio ha pensato male la “Sempre e per sempre della Mannoia forse
troppo sicura di vincere da non uscire dall’equivoco di un De Gregori affettato
e di massa o la lesta “Minchia signor tenente” reinterpretata da un Masini
voglioso di piacere alle giovani generazioni tanto da omaggiare Giorgio Faletti
con una cadenza da tapis – roulant ,surclassato comunque, dalla sensualissima
e combattiva Paola Turci di queste sere lei sì
davvero emozionante a dir poco e che l’Atzei ( che forse si crede una figa ma non lo è) dovrebbe
imitare o meglio, prendere ad esempio senza magari atteggiarsi (mio Dio!) a Orietta Berti due punto zero.
Perché poi le strade dell’arte son due o
rivoluzionanti aggiungendo dote e personalità, oppure molestanti la culla della
memoria ninnando ad ogni apparizione sanremese vacue note d’esangue intrattenimento.
Bernabei ad esempio, in questo svagato box sta
invecchiando loffio e nemmeno stavolta s’allontana dal sicuro gingillo di una nenia
foruncolosa e infante distruggendo quanto di maturo e tagliente c’e nella “Un
giorno credi” di Bennato. A non dire dell’”Immensità”
di D’Alessio gran prova al piano ma il resto? Boh e pure mah.
Perché poi arriva il fischio antenato e
consapevole di LP, o il lunare momento di Mika a mostrare la differenza tra
quello che vorremmo essere e purtroppo, non siamo: giovani come i meravigliosi ragazzi
dell’Antoniano ridotti ombre assorbenti
e sfatte stivanti notti assonnate e sfinite eppur sempre grati di fronte a una vecchina
canterina e sbieca, e illusi e confusi al cospetto di due ragazze francesi balbettanti
e immotivate.
Come playboy alla deriva all’ennesima
notte in bianco della propria vita.
Ditemi voi, cari lettori, se questo non
è dannatamente vintage.
E’ così vintage da star bene in un film
vacanziero dei Vanzina anni Ottanta.
Il guaio è che va in onda ancora adesso sul
palco di Sanremo nel 2017 con la sciatta disinvoltura che si vedrebbe in una qualunque
Isola dei famosi.
E’ questo, (liberati dall’elementare ed esausto rimario di Alice Paba e Nesli, e le
peccaminose ma in fondo superflue intenzioni
di Giulia Luzi e Raige), non è ammissibile.
Nessun commento:
Posta un commento