venerdì 10 febbraio 2017

La terza serata del Festival di Sanremo e l'onusto masso della nostalgia canaglia

Lungo viale di maldicenti note, Sanremo si prende una pausa dalle proprie modesterie cantanti concedendosi uno struscio deciso e scaltro  contro l’onusto masso della nostalgia canaglia.
Non solo omaggio all’Al Bano presente e  tenue di queste sere ma perché tipico del passato è la capacità d’attaccarsi al midollo rappresentando testardo se stesso e poco importa se hai 105 anni e non si capisce nulla di  quanto rantoli. Un mazzolino di fiori per l’andato a Sanremo ci sarà sempre. Se poi esistono levatrici capaci di sfornare settemila bimbi in anni di accudenti  mattane un motivo, (come cantava Celentano nel 2005), pure.
Quale?
quell'incapacità globale di guardarci addosso, e di accettare la vergogna per tornare alla dignità.
Assai più facile, invece, è mascherarsi in qualche modo e tirare avanti.
Non a caso, "il Festival di Sanremo  è un programma campione d’ascolti.
Consolatorio e sciocchino assieme, racchiude il cumulo delle paure che ci portiamo appresso:
Schiuderle sorvolando su un’intesa Conti – De Filippi ritrosa e inconcludente (dopo tre serate si può dire: i due avvezzi centravanti d’area   di rigore e luci della ribalta, insieme si pestano un po’ i piedi penalizzandosi a vicenda), è stato salutare, sorprendente e prezioso.
Come altro definire  l’”Amara terra mia” di Ermal Meta millenaria matrona di voglie sensibili e presenti, oppure “Le mille bolle blu” di Lodovica Comello brava a gorgheggiare sul passato e pronta a lanciarsi sgambettante e allegra verso un luminoso futuro riscattante intera l’abulia tenera e sospesa della sua canzone in gara.
Perché poi il pericolo di una cover ben eseguita è proprio questo: farti dimenticare tutto il resto.
Come non detto o non scritto se volete andando avanti.
Ad evitare il rischio ha pensato  male la “Sempre e per sempre della Mannoia forse troppo sicura di vincere da non uscire dall’equivoco di un De Gregori affettato e di massa o la lesta “Minchia signor tenente” reinterpretata da un Masini voglioso di piacere alle giovani generazioni tanto da omaggiare Giorgio Faletti con una cadenza da tapis – roulant ,surclassato comunque, dalla sensualissima e combattiva  Paola Turci di queste sere  lei sì davvero emozionante a dir poco  e che  l’Atzei  ( che forse si crede una figa ma non lo è) dovrebbe imitare o meglio, prendere ad esempio senza magari atteggiarsi (mio Dio!) a Orietta Berti due punto zero.
Perché poi le strade dell’arte son due o rivoluzionanti aggiungendo dote e personalità, oppure molestanti la culla della memoria ninnando ad ogni apparizione sanremese  vacue note d’esangue intrattenimento.
 Bernabei ad esempio, in questo svagato  box  sta invecchiando loffio  e nemmeno stavolta s’allontana dal sicuro gingillo di una nenia foruncolosa e infante distruggendo quanto di maturo e tagliente c’e nella “Un giorno credi” di Bennato.  A non dire dell’”Immensità” di D’Alessio gran prova al piano ma il resto? Boh e pure mah.
Perché poi arriva il fischio antenato e consapevole di LP, o il lunare momento di Mika a mostrare la differenza tra quello che vorremmo essere e  purtroppo, non siamo: giovani come i meravigliosi ragazzi dell’Antoniano ridotti   ombre assorbenti e sfatte stivanti notti assonnate e sfinite eppur  sempre grati di fronte a una vecchina canterina e sbieca, e illusi e confusi al cospetto di due ragazze francesi balbettanti e immotivate.
Come playboy alla deriva all’ennesima notte in bianco della propria vita.
Ditemi voi, cari lettori, se questo non è dannatamente vintage.
E’ così vintage da star bene in un film vacanziero dei Vanzina anni Ottanta.
Il guaio è che va in onda ancora adesso sul palco di Sanremo nel 2017 con la sciatta disinvoltura che si vedrebbe in una qualunque Isola dei famosi.
E’ questo, (liberati dall’elementare  ed esausto rimario di Alice Paba e Nesli, e le peccaminose  ma in fondo superflue intenzioni di Giulia Luzi e Raige), non è ammissibile.


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