giovedì 9 febbraio 2017

La seconda serata del Festival di Sanremo è il massimo della pena

Vinta la luttuosa riverenza del debutto, Sanremo si palesa per quel che è: uno spettacolo nazional – popolare al limite del carnascialesco utile a celebrare i propri miti (Totti), e lusingare turbe adolescenziali ispessite dal botox e il talento (Robbie Williams).
A schiudere tal provinciale orizzonte, ha pensato Maria abbigliata a bruscolinara provetta ridondante custode di un portachiavi feticcio di Carlo Conti il conduttore – direttore artistico e chi più ne ha più ne metta di questa edizione del Festival.
Immagine più significativa di quanto possa sembrare quest’ultima; racchiude, infatti, l’incapacità tutta umana di trattenere il presente, custodire l’attimo, senza farne memoria e idolo.
Circostanza che mette al tappeto le buone intenzioni cui la seconda serata sembrerebbe rivolta: la scoperta di suoni giovani e controcorrente subito imbastarditi e reietti da tonfi rochi e infranti.
A Sanremo accade purtroppo e Marianne Mirage meritava tanta delusa e compianta menzione.
Anche perché eliminata lei e i suoi bellissimi riccioli, Sanremo è la solita discesa negli inferi dei difetti italiani tra intermezzi troppo lunghi e Robbie troppo breve.
Diciamolo: tra il depression pop di Masini, il vampiresco Bravi e il gorilla di Gabbani l’ex Take That avrebbe meritato più spazio.
Ha limonato duro invece risvegliando  gli ormoni arrochiti della Maria (che, Maurizio, si sa, a 78 anni ha rotto lo sgabello),  ma anche le spoglie di un Festival  altrimenti stretto forte al suo piccolo mondo antico di mamme defunte,  romanisti orbi e gobbi malfermi utili a macinare affetto, simpatia e solidarietà perché  l’imperfezione umanizza, il fato è oscuro e lastricato di vanità.
Ok se lo canta la bellissima Giorgia di iersera forse il concetto è più chiaro ma in un mondo, dove l’onestà quotidiana diventa eroismo da palcoscenico va bene tutto.
Anche che una scimmia nuda balla e vince il Festival.
Regressione utile e forse sacrosanta per un format vecchio di sessantasette anni, che a colpi di tradizione e immobilismo ha resistito fino ai giorni nostri, inciampando rumorosa nei suoi stessi limiti: quelli che impediscono alle giovani generazioni di proporsi per più di tre minuti in scaletta rovinando sghemba sulla chiocciola ruvida viscosa e affamata della contemporaneità.
Parola lunga e fastidiosa quando ancora accoglie D’Alessio, Al Bano e Ron  rovesciando sul pubblico a casa ciò che intimamente non sente e afflitto subisce.


Come in tribunale, il massimo della pena.

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