mercoledì 29 ottobre 2014

Il panino della memoria



Intuirti se non altro nella mozzarella e nel crudo

Nel pomodoro spremuto che sanguina tra i denti e detergerti

Di nuovo con succhi di frutta alla mela verde,

fino a farti scivolare, eccitata da mille  bustine di zucchero a velo

vicino al cuore, per  chilometri di intestino.


Tenue il ricordo, crasso il destino.


 Due euro e cinquanta, il panino

della memoria, e più appetito di prima.


venerdì 24 ottobre 2014

Non eravamo noi quel giorno



Non eravamo noi

quel giorno,

non siamo io e te  adesso



dispersi
in vani di fondo



tra miriadi  di parole

 che non sanno tornare

a quell’Eden che il Caos

aveva schiuso.

Ed è  solo

un inchiostrato silenzio

quello che culla

lo slacciato  istante

che ti cerca  

in un succube ricordo

rovistando

tra cicalanti carte

appallottolate d’impossibile.


lunedì 13 ottobre 2014

Giacca blu, cravatta rossa



Antonio andava lì da quando aveva quindici anni, e tutti i suoi sogni erano soldati in fila di una grande armata, pronti ad affrontare ogni combattimento.

Ora che quel  tempo era trascorso e  vi ritornava, passava in rassegna i reduci di mille battaglie: avevano le uniformi più logore e visi segnati dai corpo a corpo.

Contava i caduti: al loro posto giovani legionari dalle belle speranze.

In mezzo a quelle ridenti camelie Antonio, si sentiva un’arrochita gardenia ma doveva avere la forza di restare, fermarsi, agitarsi anche lui per un po’ di quel sole fazioso.

Non era completamente onesto quel raggio che s’infilava circospetto nella cella del suo scompartimento. Antonio lo sapeva benissimo e forse era persino normale visto l’ambiente in cui si trovava. Gente annoiata, triste, divisa. Quegli individui l’onestà l’avevano barattata con lo sberleffo di circostanza utile a scollinare le asperità della vita e raccontarsi una decorosa favola prima della buonanotte dell’esistenza.

Era in treno. Stava andando a Forlimpopoli a consegnare un “malloppo” di documenti decisivi per l’espropriazione di un terreno su cui si sarebbe dovuto costruire un ipermercato. Orrore, nausea, sbigottimento. Un’altra menzogna buona per depliant ingannevoli e famiglie di cartapesta.

Antonio si sentiva a  disagio. Non era onesto vivere fabbricando menzogne. Nemmeno quando questo significava assicurarsi buone provvigioni e gratifiche mensili.

Ma doveva resistere. Farcela assolutamente. Se lo era imposto fin dal giorno precedente. Restava solo il viaggio da affrontare. Il viaggio. Due parole cui non riusciva a mettere un freno, un punto per sentirsi davvero felice.

Mentre occupava l’ennesimo scompartimento della sua vita, Antonio, si rese conto che non era l’approdo, il punto cui mirava, ma nel chiarore dell’alba, finalmente giungere, a una terra di miele e vento. Il percorso era il giogo cui sottometteva il capo, il desiderio, il sogno di un seno vellutato nascosto in chissà quale andito del pianeta. E intanto, la sua nave solcava arditi mari vagheggiando non la meta ma il viaggio prossimo alla fine.

Alla stazione, c’era il messo comunale che lo avrebbe portato a destinazione. Poco prima, vi era stato un veloce scambio telefonico utile a tracciare contorni familiari a quella che avrebbe dovuto essere l’ennesima vaga apparenza della sua vita: giacca blu, cravatta rossa e una vaghissima somiglianza con Peppino Di Capri. Perché il messo si fosse premurato di fargli sapere quest’assonanza fisiognomica gli sfuggiva. Lui era cresciuto con le canzoni di Gianni Morandi e Don Backy. Decise comunque che per una mezza giornata Peppino Di Capri gli sarebbe andato benissimo.

Lo beccò subito. Un affabile quarantenne con un sorriso da idiota, non notificatogli in precedenza,e la sua famosa giacca blu, cravatta rossa e vaghissima somiglianza con Peppino Di Capri.

Dopo una vigorosa stretta di mano tutto riverente e ossequioso con un “Lei” imponente come lo stacco di coscia di Heather Parisi, negli anni Ottanta, il messo disse di aspettarlo qualche minuto. Il tempo di recuperare la macchina lasciata un chilometro avanti.

“Le dispiace?”

No. Ad Antonio non dispiaceva affatto. Il “Lei” gli era sempre piaciuto. Antonio era piccolo di statura e quel “Lei” era la stalattite cui arrampicare quella rispettabilità che una vita al limite del baratro, aveva slanciato verso vette che sentiva di aver meritato.

Ma con quel messo così onesto e premuroso aggiuntivi sostegni non servivano.

Il sudore che imperlava la sua fronte indicava una vita vissuta con passione e certe sofferenze hanno solo bisogno d’occhi formato attaccapanni disponibili ad accogliere le vite degli altri per potersi svelare in tutta la loro calda magnificenza. L’attaccapanni predisposto da Antonio era un “Tu” grande come una casa nella quale il loro spirito si adagiò subito senza affanni né ritrosie. “Come ti chiami?”.  “Angelo” disse lui. “Io son Antonio e per arrivare a San Pietro, mi manca ancora molto, quindi perché risparmiarmi un chilometro?”. E’ così verificato che aveva a che fare con un povero mortale i due, s’incamminarono verso l’auto.

Antonio non era San Pietro. Non c’erano dubbi. Ma aveva capito. Aveva capito che in quell’uomo in giacca blu e cravatta rossa dalla voce piena di bollicine c’era invece una gravosa malattia che il tempo non aveva sanato e chiedeva ancora il lenimento dell’ascolto.

Nemmeno Angelo, era un cherubino. Aveva tre figli e per tirare avanti, faceva due lavori. Quello regolare del messo comunale, e per aver ereditato un podere ricco di vigneti, il contadino.

La sua voce densa era il suo cuore prodigo.

Nulla sembrava pesargli. Anzi, quella fatica, lo gratificava e lo aiutava a sopportare i rovesci dell’esistenza.

Aveva avuto un matrimonio sbagliato, ma una separazione stupenda. Antonio non poteva crederci. Angelo era radioso.

Antonio aveva rinunciato all’amore. Malinconico, stava sulla riva dell’esistenza aspettando. Angelo invece no. Angelo amava la salsedine, i cocci rotti, gli escrementi in faccia. Il mare dell’amore gliene aveva regalato tanti. E li conservava tutti nel suo sguardo pieno e dignitoso.

D’altra parte l’amore, diceva Angelo, era un mare. E nel dire questo allargava le braccia formato mappamondo.  In un attimo quell'uomo in giacca blu, cravatta rossa, non era più Peppino Di Capri. Bensì Domenico Modugno modello Nel blu dipinto di blu primo al Festival di Sanremo nel 1958 in coppia con Johnny Dorelli.

E se è un mare, l’amore, ha le sue onde, le sue maree e venti di gelosia che minacciosi soffiano incessanti.

E se è un mare, l’amore, conduce relitti galleggianti alla deriva, ossi di seppia lievi in sua balìa.

E se è un mare, l’amore, allora è inutile opporvisi: bisogna abbandonarsi, dalla corrente lasciarsi portare.

Lasciarsi portare. E così, dicendo Angelo, ancheggiava modello ragazza hawaiana di stanza a Honolulu.



Angelo aveva scelto di lasciarsi portare e si era innamorato di nuovo. Di Zara. Una marocchina di venticinque anni che tra quattro mesi diceva, gli avrebbe dato un figlio. Il quarto della sua nidiata.

Ed era felice. Dei suoi quasi  quattro figli e della sua separazione stupenda.

Con Roberta (questo il nome della sua prima moglie), s'erano voluti troppo bene per continuare a litigare e farsi del male. D’altronde, quando erano insieme, lui stava bene solo quando lei due volte a settimana, andava dalla madre. Appena capirono che la cosa era reciproca, iniziarono a parlare, fino a concludere che entrambi desideravano la stessa cosa. Inoltre, da quando anche la moglie aveva trovato un nuovo compagno, andavano d’amore e d’accordo ed essendo più sereni, anche i loro tre figli, stavano meglio. Ora diceva orgoglioso Angelo, collaboravano e se c’era bisogno, si aiutavano. Se si rompeva un rubinetto in casa della moglie, lei non chiamava più l’idraulico. Andava lui e in un paio d’abili mosse metteva  a riposo il senso di colpa che sotto la sua giacca blu e la cravatta rossa tra le pieghe delle parole, lo divorava tutto.

Antonio cominciava a non poterne più.  L’arguta determinazione di quell’uomo gli piaceva. La trovava giusta.  Onesta. Ma quando Angelo si sforzava di dimostrare a tutti i costi equilibrio e serenità non lo seguiva più e conati di vomito gli sconvolgevano lo stomaco.

Erano quasi giunti in prossimità dell’automobile e Antonio ebbe l’impressione di trovarsi davanti all’altra metà di se stesso che gli era sempre stato accanto e che lui aveva costantemente ignorato.

In un lampo Antonio si rese conto che quell’uomo rappresentava l’altra parte di se che al contrario di lui aveva vissuto  stando al centro della vita, dell’amore, di tutto.

In quel momento, se solo avesse potuto, Antonio gli avrebbe voluto dire: «Se viaggio nei dintorni dell'amore, è per non ferire, per non ferirmi».

Ma le campane a festa che brillavano nella voce di quell’uomo ora smentivano le sue parole, facendo  il controcanto a questa che era solo  mancanza di coraggio.

Nella sua stravaganza, quell’uomo con la giacca blu e la cravatta rossa, gli stava dimostrando che amare è darsi, non è solo stringersi nel proprio guscio ritirando antenne.
L'amore vero è diventare l'altro, pensare i suoi pensieri, anche a distanza, tutto è ostile e sembra che tutto ti remi contro facendo del mare un manto scuro rimosso di sogni.

Invece Antonio rimaneva alla periferia di se. Ingolfato, solitario, stravolto dal fiume di parole che premevano furenti agli argini della bocca e non riusciva a dire.

Angelo, bontà sua, non aveva di questi problemi. Parlava all’infinito tramortendo il povero Antonio il quale non si era ancora ripreso dalla folgore precedente, che già era investito da un nuovo tifone chiacchierone.

Ora il poliedrico Angelo, con fare sentenzioso ed esperto, parlava della paura. La paura di separarsi. Quella che pareva attanagliare molte coppie ma che a lui e alla sua ex, Roberta, non aveva colpito.

A suo dire molti che non vanno d’accordo, non si separano per paura delle rappresaglie dei parenti, timore degli amici desiderosi d’affibbiare la maglia nera al boa di turno, cercando una vittima da consolare e coinvolgere in imprevedibili partite a scarabeo. Paura del dolore arrecato ai figli, e di smarrire il loro rispetto, perdere il loro amore.  Paura d’esser soli con un vuoto davanti troppo grande da riempire paura di quell’oltre che ci avvince e non sappiamo chiamare col nome di qualcos’altro che ci attende.

Intanto senza rendersene conto, Antonio insieme al suo gioioso amico in giacca blu e cravatta rossa erano giunti a Forlimpopoli e nonostante si fosse fermato, ancora, continuava a cantargli il trionfo di quella vita.  Un assoluto portento Angelo.

Giacca blu, cravatta rossa, e un sorriso, forse allargato che non gli apparteneva.












giovedì 2 ottobre 2014

I dieci libri della mia vita



Da brava tartaruga non potevo fare di meglio. L’anfibia comparazione non aiuta molto lo so bene, ma divincola di quel tanto da slacciare quello che sto per raccontarvi dalla ruota del doppiato. Dalla vita, dai sentimenti, da tutto.

Il fatto è che detesto affermare qualcosa senza contestualizzare a dovere e una bacheca pur personale come quella di Facebook, non aiuta in questo.

Soprattutto quando si parla di libri. I quali, è giusto ricordarlo, non servono a sbreccare le pareti di una casa, ma a intonacare altri mondi quello sì. Impastati d’aria fresca e buoni ricordi. Tanti quelli appiccati quale estrema resina alla vita di un bimbo che non vuole saperne di morire e gagliardo mi spinge a raccontare la sua storia. Si chiami Raffaello o Antonio poco importa perché tanto son io a risponderne per legittima paternità e tenera appartenenza.

Eccovi quindi la top ten dei dieci libri che mi hanno fatto sentire meno solo di un cactus in mezzo al deserto, e a  cui devo metà dell’inchiostro con cui imbratto il sole di questa vita.

10) A presto Casimiro di Walter Minestrini. Non lo ricorda più nessuno ma un libro che ha resistito a otto traslochi in quindici anni merita la medaglia di una citazione. Me lo regalò mio zio Gianfranco e mi fa pensare ai miei nonni e in un processo di crescita intellettuale, come all’inizio di un post “letterario” ricordarsi delle proprie radici è importantissimo.



9) Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne.  Arrivò nelle mie mani il 2 luglio 1995 quando il Parma ufficializzò l’acquisto di Hristo Stoickov dal Barcellona per dodici miliardi. C’era un sole bellissimo e la ragazza che mi porse quel libro grosso e variopinto per leggerlo durante le vacanze estive non era compresa nell’offerta. Quel giorno fu importante anche per un altro motivo: imparai, infatti, la differenza tra una biblioteca e un’edicola. A dodici anni non è poco.



8) Satyricon di Petronio Arbitro. Di una sfrontatezza unica lo lessi la prima volta nell’autunno del 1994.  Non lo trovai difficile.  L’autore voleva sbertucciare una civiltà decadente e smarrita in vanesi sofismi. Io tranne l’ultima parte alquanto frammentaria e complicata, mi sbellicai dalle risate. Ricordo la sorpresa di trovarmi di fronte ad un romanzo sussultorio e travolgente, impavido ed emotivo.  In fondo, avevo l’impressione di essere in una delle gigantesche comiche della coppia Villaggio – Pozzetto allora in voga. (meglio le prime delle seconde).






7) Il nome della rosa di Umberto Eco Letto nel 2001 segnò il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza. In quei mesi sognavo d’incontrare anch’io un Guglielmo da Baskerville capace di spiegarmi i segreti della vita e i veleni dell’esistenza. Ma uno Sean Connery non l’ho mai trovato. Ero Adso da Melk e lo sono rimasto.



6) I promessi sposi di Alessandro Manzoni In base ai recenti dati raccolti nell’ultimo trasloco, non molti mesi fa, so di possederne almeno 15 edizioni.

Li incontrai per la prima volta nel 1989 attraverso la rielaborazione televisiva di Salvatore Nocita con Delphine Forest e Danny Quinn. Li apprezzai definitivamente il 10 gennaio 1990 quando andò in onda la prima puntata dello stesso sceneggiato rivisitato dalla comicità del trio Lopez – Marchesini - Solenghi. Non so, ma da quel momento ho sempre immaginato l’eco onnisciente del Manzoni attraverso la voce di Massimo Lopez ed anche solo per imitarlo e vezzeggiarne il ricordo, l’ho letto sempre volentieri. Ora il Trio non c’è più. Lopez ha ucciso Homer Jay Simpson, quella Bella Figheira di Anna Marchesini lotta gagliarda contro una tignosa artrite reumatoide, Solenghi è scomparso dalla tv e a me non rimane che il Tubo per rinfrescare un bel ricordo.



5) Il capitano è fuori a pranzo. di Charles Bukowski. Testo estremo dal valore iniziatico. Almeno per me. In quel caotico 2003, mi fece capire quanto fosse importante martellare una tastiera elettronica e fare il filo ad una vita molto più veloce del sottoscritto. Ancora adesso.



4) Tutti giù per terra di Giuseppe Culicchia. Letto con colpevole ritardo solo lo scorso gennaio, dopo aver pensato addirittura fosse fuori catalogo, mi ha fatto ridere come non accadeva da  tanto tempo. Non è più accaduto in effetti.



3) Vita d’un uomo. Tutte le poesie di Giuseppe Ungaretti. Anatomia del verso, spettrografia  di un alito, autopsia dell’esistenza. In pratica Peppino d’Alessandria d’Egitto, a quelli del RIS di Parma, gli fa un baffo.



2) I Canti Orfici di Dino Campana Consigliatomi nel 1999, per ineffabile nomea e incredibile somiglianza caratteriale col matto di Marradi, quello spruzzo di sperma tricolore griffato Einaudi mi regalò una pazzia familiare, una melodia di carezze, un motivo in più per resistere. A diciassette anni se ne ha bisogno.



11)    Il giovane Holden di J. D. Salinnger. Mio dio. Se lo avessi incontrato son certo, non mi avrebbe filato proprio. Se ne sarebbe stato stretto nel suo cappello da cacciatore a fumare una sigaretta per i fatti suoi concentrato su una partita di football americano. Sordo ai miei richiami non avrebbe mai saputo che il suo libro  in testa a qualche migliaio, nella mia biblioteca è il primo di tutti.  Non mi sarei offeso però. Amico di tanta reticenza, avrei steso una lista di libri quasi come questa solo per dirgli che se ho scritto qualcosa e continuo a farlo è per merito suo e che anch’io mi chiedo dove mai andranno a dormire le anatre di Central Park durante l'inverno? E lì lì mi sono perso.