venerdì 27 febbraio 2015

Occhiali da vista



Nel mio tormento trovo la vista smarrita.
Era accantonata sul fondale del ricordo,
nell’antro atomico, dove i glaucomi non offuscano,
e tutto resta limpido al riparo dalle tenebre.

E il mattino è effic
iente come le formiche attorno al proprio rogo.
La mia umanità è conforme all’oceano, ha la forza di uno tsunami.

 Tutti gli strazi sono occhiali da vista.


martedì 17 febbraio 2015

L'Oriana di Vittoria Puccini:una carnevalata che la TV pubblica si poteva risparmiare



 Giacomo Puccini il  compositore, a quanto ne so,  non diceva bugie. Vittoria, l'attrice (o presunta tale), sì  con una Oriana Fallaci dalle tinte troppo  tenui per incarnare la maschera di un’epoca, la  miccia di un’indignazione, la ragione di una rivalsa.  Cavalcata senza convinzione da una Puccini ancora troppo legata a quell’Elisa di Rivombrosa che tanto successo un tempo, le arrise e ancora tignosa e impertinente  spunta a schermare una carriera difficile da sdoganare da quel fiabesco scenario.

Quello poi proposto anche in quest’occasione, è sempre il solito,
fatto più di sfondi che non reali approfondimenti, resta appeso a una volontà certo apprezzabile nelle propensioni non nei risultati molto simili alle tante carnevalate imperanti in questi giorni di scherzi e bubbole.

Peccato questa, sia andata in onda per davvero però  e l’Oriana , quella vera,  resti  aspra matrona nel cielo indefinito della nostra memoria.

E da quell’infinita terrazza di cicche e omissioni, ci schernisca - altra frustata in questa notte fredda.

domenica 15 febbraio 2015

La quinta serata del Festival di Sanremo e quel Grande amore che non fa dormire



Figli del tubo catodico, avvinti da nostalgia canaglia, non potevano essere che gli acuti tenorili de Il Volo a trionfare nell’ottocentesca sala da tè allestita in queste notti mannare dal Festival di Sanremo.

Un successo pudico e casalingo quello della RAI che dimostra quanto il Paese sia incapace d’andare oltre i propri limiti, affidando le sue attempate velleità a supposte ambizioni e antiquate estensioni.

Perché aldilà della facile lacrimuccia non credo che i brufoli di una quindicenne evaporino di schianto allo stridio di un grande amore.

Un sentimento volubile che tuonanti saette acustiche non rendono più saldo.

Incanta però, vincolandoci all’istante. Come in una spiumata  istantanea di giovinezze devastate da un tempo scagliato altrove.  

In uno scantinato recondito della nostra memoria, dove qualcuno più libero e visionario dello statico Carlo Conti di queste sere, costruisce una storia autentica che invita tutti a identificarsi, guardarsi con tenerezza, e infine ridere di noi stessi.

Perché alla fine una risata ci seppellirà. Un grande amore non fa dormire.


sabato 14 febbraio 2015

La quarta serata del Festival di Sanremo e la sana follia di Sammy Basso



Se Fabio Fazio l’anno scorso sguazzava nella grande bellezza, Carlo Conti quest’anno sgomma nella carogna vecchiaia altrimenti detta nostalgica tradizione. Tutto sembra chiarire questa grigia sfumatura. Dagli uomini in nero, alle donne in bianco. Tanto languide da scorrere sull’ambito palco come candidi ruscelli in estemporanei idilli. Talmente improvvisi da apparire radiose epifanie in una vallata grigia e bloccata. Così saldata a se stessa da eliminare subito i Kutso un curioso mix tra la Bandabardò e Billi Ballo a vantaggio di un più inquadrato e servizievole Giovanni Caccamo. Chi è? Un volto da poster cui in questi mesi qualche ragazzina dalla salivazione esuberante attaccherà un impulso simile alla venerazione.  Poi, in preda a ben altre eruzioni e deferenze, seppellirà in cantina onnipresente a ogni trasloco.

 Passando  alla gara in assenza di sinuose aderenze che facciano alzare il ludibrio di un incanto annullato dall’incedere di un improrogabile, scaletta, è bene soffermarsi sui volti di un festival molto pop è poco cool. Bellissimo quello di Virginia Raffaele. Monologo incluso. Peccato sia arrivata troppo tardi a  rimpinguare il nutrito viavai di ospiti.

Ci son stati tutti a questo Festival di Sanremo,  e c’è ne saranno ancora, da Ferrero a Conte, da Siani a Cirilli. Dovevano raccontare l’umore del paese: ne hanno svelato il volto invece. Opaco, imbarazzato, stanco.  Affaticato dal tarlo d’imitare se stesso più che dall’onere di parlare agli altri e magari indicare una  strada.

Tra i cantanti salvo Nina Zilli. L’unica che a mio avviso potrebbe uscir da lì con le palle giuste e affrontare palchi più impegnativi, Annalisa, che vorrebbe e potrebbe fare di più se Kekko Silvestre non gli rompesse gli estrogeni nelle ovaie con canzoni troppo modaiole perché facciano tendenza. Quella che fa Malika Ayane capace di far diventare un apparecchio ortodontico un dispositivo d’inediti sogni acustici.  E poi c’è Nesli. Apprezzabile il suo tentativo d’uscire fuori dal trip del rap ed entrare a passo felpato in quell’intrico complicato e scivoloso della vita vera. Quella da cui potrebbe fuggire il funereo Raf di questi giorni e non merita di stare la patinata Anna Tatangelo di queste sere. Troppo finta per rappresentare l’Italia  affranta di questi mesi. Quest’ultima è stata eliminata come l’intrusa Lara Fabian e i pessimi Soliti Idioti. In compenso s’è salvato il deretano di Mauro Coruzzi. Speriamo basti Grazia Di Michele a fargli da ancora. Intanto l’ha salvato la storia di una difficile convivenza con se stesso e con gli altri. Come se non bastasse Barbara D’Urso a far da anticamera di storie convulse e borderline, ecco spuntare un equivoco anche a Sanremo. Un tempo regno del bel canto italiano, ora monarchia assoluta di sgolati spifferi.

Intendiamoci non che i ragazzi del Volo e il sopracciglio irato di Marco Masini la rappresentino bene  e il bimbetto Moreno, la rappino meglio.

Ma almeno urlano e fanno casino più di questo mogio Festival di Sanremo. Uno spettacolo pop dai toni retrò. Molto retrò, pure troppo.

Meno male che a sconvolgerlo ci ha pensato la sana follia di Sammy Basso afflitto dalla Progeria altrimenti, detta invecchiamento precoce.

Sarò cieco io, ma cari lettori  ma soprattutto preziose  lettrici credetemi: in mezzo a tutte quelle vetuste, imbalsamate, marionette, mi è sembrato il più giovane, dinamico e volitivo di tutti.

venerdì 13 febbraio 2015

La terza serata del Festival di Sanremo e il sorriso compiaciuto di uno scuro toscano



Se Carlo Conti potesse rinascere son certo lo farebbe sotto le tonde sembianze di una palla stroboscopica. Una di quelle che si metteva negli scantinati quando si voleva fare gli alternativi senza apparire dei disadattati.

Una cover serve proprio a questo. Rinfrescare di nuovo ciò che è destinato ad apparire vecchio e stantio.

Come questo Festival in fondo è e non si vergogna di essere.

Perché tutto è calcolato al millimetro, è l’unico fuoripista è regalato dalle derapate farmacologiche di Arisa e la vista corta di Emma Marrone che vorrebbe dare di più, ma non può stretta più che dai monacali vestiti da striminziti copioni che fanno il gioco di chi, come il Conti impegnato a riciclarsi in una versione stempiata del riportato Baudo, non ha in fondo, molto da dire.

Iersera, rinfrancato da storie già, scritte è apparso addirittura più rilassato del solito azzardando siparietti rap con un sempre sereno Moreno (son due anni che yoyoneggia sul tubo catodico e lui ride incurante dei maroni altrui) e prendendosi snelle rivincite su degli imbolsiti Spandau Ballett.

Il resto son solo cover. Versioni arrangiate di spompati riempi pista. Quelli che a quattordici anni ti permettevano di superare l’imbarazzo dell’insalata russa e puntare dritto a qualcosa di più di un’anonima tapparella. Quelli che se non si era strafatti di Coca  (Cola cosa avevate capito?) ci scappava pure un bacio e si tornava a casa felici e dubbiosi se da quel tenero approccio poteva nascere un fidanzamento o peggio un bambino.

Purtroppo in questo Festival di Sanremo dal credo monastico e sapore liturgico, questo dubbio non esiste spazzato via da abiti e acconciature da elettroencefalogramma piatto. E’ così aldilà delle buone intenzioni, e qualche sgasata nello spazio siderale dell’allucinata follia di Massimo Ferrero e la mordace ironia di Luca e Paolo (loro sì a proprio agio sul palco di Sanremo a differenza dell’inopportuno Siani e lo spaesato Pintus), si ha l’impressione che il sorriso compiaciuto di Conti corrisponda alla perfezione con quello che sin dall’inizio lo scuro toscano voleva creare: uno show da dopolavoro vip che illuminerebbe le serate di qualsiasi centro anziani di una volta, non certo quelle dei centri anziani di oggi che sembrano delle oasi caraibiche.

Molte esibizioni a dire il vero (apparte quelle dedicate ai defunti), vorrebbero cavalcare questo fiorito trend dal quasi morto Raf senza mordente a dire il vero. Ma dov’è finito quell’uomo che nel pieno degli anni 90 rivendicava  senza pudore e chioma al vento, una centralità maschile minata dall’emancipazione femminile?

 Sparito. Annebbiato da un’opacità, quantomeno sospetta, non incide più di tanto.

Ci vorrebbe un po’ di stucco. Giungono le gambe di Nina Zilli. Una versione due punto zero di Mina con le palle vere scrivevo ieri. Da football americano stile Alicia Keys aggiungo oggi. Un attimo fuggente di televisione fuggevole.  Spazzati via dall’introversa Annalisa.  Una che di ugola e capacità vocali ne avrebbe quanto è più di altre, ma a differenza di molte (vedi Malika e Chiara), non aggredisce lo spazio ne sfonda la telecamera e pure in groppa alla sensualissima Ti sento dei Matia Bazar canta bene ma non straripa. Almeno quanto Bianca Atzei.  A sfondar lei ci pensa da esperto bomber qual è stato, Filippo Inzaghi.  Chissà se almeno lui lo sa con chi gioca a briscola la notte.  Se lei o una versione più alta di  Giusi Ferreri. Dal palco non s’è ancora capito.

E se nella serata del riciclo è delle imitazioni, ci sta trionfi Nek, ormai sempre più simile vocalmente alle inconsistenti esecuzioni di Chris Martin dei Coldplay, una certezza dal tinello di casa l’ho evinta benissimo: Carlo Conti è l’unico vero erede in RAI di Pippo Baudo. Iersera, ha raccolto definitivamente i frutti della sua perseveranza di conduttore soldatino sempre pronto a mettersi a disposizione dell’azienda senza mai fare polemiche con dichiarazioni roboanti e pretenziose. Dettagli non trascurabili in tempi di crisi e identità mutevoli perché oggi lui per la RAI è tale e quale a Pippo Baudo e senza la necessità di ricorrere alle magie del reparto trucco e parrucco; ormai, con l’avanzare dell’età gli è naturale. E se continuerà a fare il soldatino e a no
n polemizzare con la Rai, condurrà molti più Festival di lui. Il tempo è dalla sua. Il colore anche. Nero. E se gli va di sedere come al suo conterraneo sorridente al potere, dall’anno prossimo il Festival di Sanremo potrebbe chiamarsi Festival di Sannero. Tanto in tempi così bui, nessuno noterebbe la differenza.