La sala, un vecchio magazzino con qualche sedia di plastica e un tavolino
da bar malfamato, era poco illuminata.
Forse di proposito. O forse perché si trovavano in un fottuto sottoscala decrepito
che era tutto quello che l’oratorio si sentiva di concedere per quelle serate.
Antonio non sapeva decidersi.
D’altronde aveva ragione Fabrizio De Andrè: su certe cose non c’e tempo
ne vale la pena di perderci un secolo in più e per quel che lo riguardava, era già complicato
investirci minuti in quel luogo.
Si guardava attorno e si sentiva dannatamente fuori posto. Gli accadeva in sostanza
da sempre, ma in quel momento sentì d’aver toccato il fondo delle cose umane
e desiderava sparire. Era arrivato che erano già tutti seduti, ma il moderatore venne
ad abbracciarlo e gli indicò una sedia. “Vieni fratello”, gli disse, “vieni”.
Fino a quel momento, nessuno aveva ancora aperto bocca.
In un angolo c’era un cartellone rosa shocking con scritto:
“Non sei solo”. “You are not alone”.
Continuava a ripetersi che andar lì era stato un errore, e in un angolo della
sua mente si accendeva intermittente, l’idea
meravigliosa di piantar tutti e fuggire. Forse faceva ancora a tempo ad andarsene
in fondo era mercoledì e la sua Juventus si giocava la vita per il passaggio del
turno in Coppa Italia contro gli eterni rivali della Fiorentina, quando un obelisco
in giacca e cravatta alla sua destra prese la parola. Si alzò in piedi, paonazzo in
volto, e si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto Calvin Klein dei
marocchini, senza scollare gli occhi dalle punte delle hogan. “Mi chiamo
Ottaviano”, disse. “Mi chiamo Ottaviano, faccio il libraio, e da due anni sono
un Goccioleista”. Poi scoppiò a piangere, nascondendosi il volto tra le mani.
Allora anche gli altri si alzarono e cercarono di sostenerlo. Chi una
pacca sulla spalla, chi un buffetto sulla guancia, chi gli scompigliava i
capelli con fare brioso. Un tipo magrolino con il ciuffo alla Elvis gli porse un pacchetto di Scottex
ultraresistenti“Tenga, gli disse, tenga: ché questi non fanno arrossare il naso”.
Antonio restava seduto, con le mani nei tasconi della felpa appena comprata
tutto contento per quel cappuccio che dava alla sua capricciosa barba una
solenne patente conventuale. Sotto il cartello rosa shocking ce n'èra un altro,
color limone. Sopra c'èra scritto:
"Davvero". Really.
All’improvviso il moderatore dell'incontro, Ottaviano, spalancò le
braccia come un santone e rivolse a tutti un sorriso benevolo, invitandoli a
rimettersi a sedere.
Ottaviano era uno che ce l’aveva fatta. Chi gli aveva fornito l'indirizzo di quel posto gli aveva giurato che ne era fuori da oltre diciotto
mesi. Qualcuno, preso dalla voglia d’avere un santo per amico, azzardava addirittura che i mesi fossero venti. Senza
mai una ricaduta, un solo morso, una sola escursione nell’orzo caldo la mattina
presto. Nulla.
Uno tosto. Un augusto. Un principe del foro dell’astinenza in mezzo a tutti
quei tapini imbucati dal vizio.
Quando tutti furono di nuovo ai loro posti,Ottaviano parlò della forza di volontà, della
determinazione, della voglia di vivere. Tutti pendevano dalle sue labbra e lui
sorrideva guardava e sorrideva, sorrideva con quell'aura da santo, sorrideva con
quello sguardo acceso e quella mascella scultorea alla Ronn Moss quando sta per baciare una delle sue donne ,
sorrideva con quegli occhi così penetranti che era legittimo pensare quegli occhi avessero guadato anche altre
sponde.
Venne poi il momento delle confessioni a cuore aperto. E furono
istantanei espianti di fegato.
Marzia Ponzi, proprietaria della Premiata Forneria Ponzi: Tutto per lo Stomaco,
raccontò con il cuore in mano del suo matrimonio naufragato. Il marito, patito
di calzoni e salsicce, non poteva capirla, rammentava, fissando un qualche punto indefinito del
soffitto parrocchiale. Una volta, proseguiva, era a casa e stava male, rannicchiata
in un angolo della stanza da letto. E lo stomaco urlava mentre cercava di
cacciar via le lacrime e niente, non ci riusciva, quando suo marito rientrò con
le buste del supermercato e le sorrise e, allora lei chiese con gli occhi
tumidi di astinenza me li hai presi? Dimmi che me li hai presi, ti scongiuro.
Ma lui tirò fuori una confezione famiglia di Ottimini al Riso e Mais e le disse:
“c'erano solo questi. “Vanno bene lo stesso, vero”?.
Un brivido corse veloce lungo la schiena di tutti i presenti, mentre sulle loro
facce si andavano dipingendo espressioni di ribrezzo.
Sotto il cartello color limone ce n'èra un altro ancora, verde acido. Sopra c'èra
scritto:
"Te lo giuro". “I
swear”.
La rinomata rosticciera riprese il suo drammatico racconto, ma fu colta
all'improvviso da violenti conati di vomito.
“Ce la puoi fare Marzia"! "Non mollare”! continuava a ripeterle Ottaviano
mentre veniva portata via a braccia dal tizio col ciuffo alla Elvis,
quest'ultimo particolarmente attento a non farsi inzaccherare la camicia bianca
della purezza conquistata dopo sei mesi di astinenza.. “Tu sei più forte della
dipendenza!, le disse Ottaviano. “Tu sei più forte”! .
E quella, con i piedi trascinati sul parquet come una marionetta, fece un gesto
con la mano che forse voleva dire "Ok", forse significava "Sì,
ciao". Su questo punto non s’ebbe mai certezza.
Ottaviano non si scompose guardò Antonio e gli passò finalmente la parola. Allora Antonio
s’alzò in piedi, si schiarì la voce e prese a spiegare che a lui la dipendenza in sé dalle
Gocciole non è che creasse tutti quei problemi, dopotutto.
Gli altri lo fissavano stupiti.
Avanzò spiegando che, cioè, c'èra di peggio delle Gocciole. Che c'èra gente là
fuori che faceva uso di droghe più pesanti, come il crack, l'eroina e il gelato Solero.
Gli altri continuavno a fissarlo stupiti.
Sotto il cartello verde acido ce n'èra un quarto, azzurro. Sopra c'èra scritto
: " La verità, vi
renderà liberi”
“The truth will set you free”.
Ma niente. Ad Antonio quelle perle di saggezza non liberavano l’esofago
che si era fatto più costipato del traffico di Hong Kong nell’ora di punta.
Ché a lui non sarebbe mai passato neanche per l’anticamera del cervello di andar lì, a una riunione di Goccioleisti Anonimi. Per
lo più in una serata in cui c'era la Juventus che rischiava la vita in Coppa
Italia. Solo che qualcosa non andò come doveva e si spaventò.
Ottaviano allora lo interruppe, gli poggiò una mano sulla spalla e con voce perita
disse: “ci siamo passati tutti, fratello. Conosciamo bene la natura del male.
Stai parlando della coazione a ripetere, dell'ossessione di mangiarne ancora una
e poi ancora un altra. Del continuare a mandar giù biscottini come non ci fosse
un domani, vero”?
No, rispose Antonio. Veramente stava parlando del fatto che le Gocciole gli
facevano cagare lentiggini.
Marzia, in un angolo, smise di vomitare e prese pure lei a fissarlo Di lato,
come l’Ispettore Catiponda colto da vedenza.
Allora spiegò che da quando
era entrato nel tunnel delle Gocciole, aveva questo problema delle feci
lentigginose. Lentiggini Pippi Calzelunghe. E che sì, su Scence aveva letto che
nelle Gocciole ci sono tante cose strane, come il colore legno massello che neanche chi
li produceva sapeva da dove venisse, o come dei micro tubuli superficiali invisibili a
occhio nudo che servivano ad assorbire il latte grazie al fenomeno della
capillarità, ed era probabilmente quello che provocava il tutto, solo che…
Venne interrotto, e non gli
consentirono più di parlare. Ottaviano, il tizio col ciuffo alla Elvis, Marzia e altri
due Goccioleisti Anonimi gli furono addosso e cercavano di bloccargli braccia e
gambe.
Tenetelo! urlava Ottaviano, mentre Antonio
scalciava come un puledro. Quest'uomo è all'ultimo stadio della dipendenza e
non se ne rende neanche conto! Dobbiamo salvarlo! Tenetelo! Ahia! Cazzo,
attenti! Libraio, stringa più forte lei che c'ha il fisico! Tenetelo!
Antonio era in trappola.
Braccia e mani lo afferravano e lo tiravano e gli mancava il fiato e in un attimo gli prese l'ansia giacché era anche
un po' claustrofobico. Quando capì che era giunto il momento. Era il momento di
verificare se tutti quei film di arti marziali ciucciati in gioventù, fossero serviti a qualcosa. Allora rifilò un calcio alla nuca al tizio col ciuffo
alla Elvis, che collassò subito al suolo
privo di sensi, e con il ginocchio assestò un colpo poderoso nel fianco del
libraio, riuscendo così a liberare il braccio destro. A quel punto prese a
mulinare il pugno, assestando cazzotti a tutti, ganci, diretti. Quelli
continuavano a tenerlo, e il pugno continuava a andare a manetta e uno di questi, centrò la
smoccolante Marzia dritta nel naso, costringendola a mollare la presa. Una
volta che anche il sinistro fu libero, fu un attimo darsi l'ultima spinta verso
la libertà.
Otto minuti dopo stava ancora correndo. Era sicuro di aver seminato i suoi
inseguitori , ma non se la sentì di girarsi a controllare. Aveva perso
una scarpa nella fuga e la gamba sinistra quella delle tredici operazioni e il
centro di gravità permanente di tutte le sue cicatrici ora gli chiedevano il
conto urlando feroce. Era stanco. Sfibrato. Ma soprattutto aveva fame. Si fermò a riprendere fiato e s’accorse tardi
di averlo fatto giusto davanti alle porte automatiche di un supermercato Porte
che si spalancarono cortesi per lui con
un rumore così esatto da apparire quasi
una devota promessa.
Cercò di non guardare all'interno, ma poi un push – up birichino in lontananza
lo tradì e lo fece entrare in quell’allucinato cerchio di perdizione e dopo pochi smaniosi passi le vide , le
sorridenti Gocciole nelle loro confezioni tutte bianche e rosse, sullo scaffale
degli sgranocchi e dell’infanzia subito dopo l’erta china delle vecchie con i
carrelli.
Le guardava le sue agognate Gocciole, e sapeva che doveva smettere, anche
perché quella gente nonostante tutto lo aveva fatto riflettere, e una volta o
l’altra, quella roba, con tutti quei sorrisi superficiali, lo avrebbe ucciso
sul serio. E allora ci pensò, ci pensò davvero: di darci un taglio, di disintossicarsi
, di tornare pulito, di tornare a essere padrone della sua vita.
Ci pensò che trentatré anni erano proprio l’età giusta per morire e che
se proprio doveva crepare, voleva farlo sciolto in delizia con le sue Gocciole e scrivendo una di
quelle poesie che componeva quotidianamente. Candide rose nere stese sul grigio
calvario della sua vita.
Ci pensò. Per trentatré secondi. Uno per ogni anno della sua piccola vita. Gli
parve una stronzata. I Trettrè, dal Drive In dei ricordi, annuirono unanimi.
Poi entrò, se ne comprò sessantasei pacchi di quelli famiglia per ricordarsene
l’esistenza nei momenti di crisi, e ad maiora semper.