domenica 30 novembre 2014

Il Pirlo della staffa



Esploro il rogo serale, mentre,


sprofondati dietro le tapparelle e le poltrone ,


i lembi della luce si suturano
In un arazzo da derby.
L’alto e il basso si confondono,
in un farraginoso biascicare
brani di piede.
Zebre bianconere ruminano
il  linguaggio dei fiori,


illividiti da infida pioggia
nemica della sensibilità della rosa.
Tori inferociti vanno a mille
Per zolle bagnate.
I minuti scorrono amputando svizzere certezze
rose dal feroce contrasto.
Chissà quell’amaranto bruno che vola 
In lontananza


quale significato avrebbe assunto,
se il Pirlo della staffa
non avesse schiuso


null’altro che la libidine 
del piacere .

domenica 23 novembre 2014

La strategia politica di Matteo Renzi e il bullismo subliminale (leggi voto di scambio), delle elezioni regionali in Calabria: carta ruvida per pulirsi il sedere.



Quando la nebbia d’autunno impera,  è  facile intrupparsi in sputi e insulti sgorganti da ugole estenuate da improvvisi saliscendi dimentichi d’idee, aspirazioni clonanti una sana e robusta memoria del fare persa invece in tormentate pezzuole che gratificano l’ovvietà del nulla sgrammaticato di un copione istituzionale scritto male e recitato peggio.

La politica è azione concreta, attraversamento dei propri limiti in vista d’albe e possibilità migliori. Il piano istituzionale di Renzi è fatto di misere corrispondenze di un protagonismo lacerato da abbagli raggianti.

In questo estenuato soggettivismo impastato di occhiolini languidi e sorrisi complici, Renzi non è stato quell’uomo di rottura con la mercificazione del tessuto nazionale protrattasi per minigonne e sottovesti del recente passato anzi. Renzi invece di ridistribuire con coscienza e dignità il peso di un’identità precaria favorendo un linguaggio che superasse lo scetticismo dello spirito nazionale e colpisse al cuore magari provando a sanarle, le ferite italiane, ha continuato a bucare il video con quell’aria da bravo scolaretto pronto a denunciare l’imperizia furente di molti a favore di un possibilismo immaginario da realizzarsi potendo dopo una vittoria della Fiorentina. Viola come i volti dei cattivi dei cartoni animati degli anni Ottanta. Come gli euro che  non bastano e non potevano far brillare trasandate lucerne, illividite speranze. Paonazze come le facce di quelli che  qualche giorno fa, si sono scontrati traditi dal peso di una rivolta gravata all’improvviso solo sulle loro spalle. Il camper ha finito la benzina e il popolo ha deciso di dire basta alle atrocità delle offese perché è meglio dare tutto se stessi piuttosto che concedersi solo a metà. Così si rischia di perdere profondità, visione, fiducia, immanenza, libertà, trascendenza. E’ così si opta per il  residuo e anestetico monolocale perché l’attico risucchia e istiga sfiducia. Come la fascia (la Sinistra?), che Renzi garrulo occupa ansiosa di inventarsi una modernità truccata e ingentilita piuttosto che interrogarsi sulla crudele vecchiezza che ancora e da sempre  emana.

Chi si è scontrato chi ha sputato, chi ha colpito,  ha percosso l’inautentico,  ha valicato il Rubicone di un’autenticità artificiale  ancora saldamente incollata alle poltrone.

Perché chi ha solo una sedia e il divano se può, lo acquista a rate,  ne son certo, farebbe a meno dell’arroganza di grugni fotoshoppati, farebbe a meno di sfondi verdi e alberati. Perché la politica è l’uomo con l’urgenza delle proprie ferite al centro dove la sua identità non è una carta che si passa frettolosamente al totem di quartiere retrocesso a bullo da sala giochi che spedisce lettere a casa e imbratta angoli di paradiso terrestre promettendo un celestiale inferno triste traguardo di un cammino interminabile. Basta. Come il Titiro di virgiliana memoria anche noi sentiamo il bisogno di un ampio faggio, dove riposare le stanche membra massacrate dal peso di una storia spossante. E sognare un mondo nuovo. Dove ognuno è protagonista senza bisogno di far da controfigura di qualcuno o il prestanome di qualcun altro. Perché altro non c’è, non esiste. Perché azzerare, è l’unica soluzione. Per non sparire, esaurirsi in un tragitto sfinito. Per poter tornare ad esser viaggiatori consapevoli  verso una terapia sociale quale unica utopia sostenibile.

Oggi intanto,esercitando un sacrosanto diritto, si è votato. Qualcuno l’ho avrà fatto, qualcun altro no. Ma tutti ricordate che la politica del voto di scambio,  delle agende in regalo, delle lettere strappalacrime , delle gigantografie con prole stretta al collo e delle  scalette televisive, è come la carta ruvida per pulirsi il sedere:  alla lunga irrita e fa male.


domenica 16 novembre 2014

Il giugno dell'amore



Usciti dal locale dove si erano pappati un pentolone di fagioli che neanche Trinità nell’omonimo film, Antonio e Raffaello passeggiavano abbracciati per la città perforando col braciere del loro sangue gemello la muraglia della nebbia.

Dopo aver vomitato a ugola spoglia e occhi lucidi L’Immensità e Poesia del suo adorato Don Backy, senza bisogno che qualcuno gli infilasse il bigliettone da cinquanta euro nelle mutande , Antonio col cuore sciolto dalla  luna  e lo stomaco indurito dal carboidrato ingranò la marcia pesante dell’enduro umano e domandò sorridendo al suo Raffaello: “E  tu lo sai, vecchio mio, perché gli uomini e le donne sono così disperati ?” Intravista nei suoi occhi, un’ombra di perplessità, Antonio concluse con l’aria imbarazzata di chi avesse profanato un luogo sacro con una scorreggia  Beh, perché con tutta sta nebbia non vedono una mazza!

Raffaello che di occhi ne aveva quattro (aveva appena comprato un nuovo paiop d’occhiali), e nell’ombra ci vedeva benissimo con un tono che pareva cavalcare l’onda dello scherzo e derapare verso una memorabile sentenza, rispose; “Secondo me gli uomini e le donne son così disperati, invece, non tanto per questo, quanto perché Madre Natura ha donato loro, un SOLO  motore e DUE cuori “

Antonio, conosceva  troppo bene Raffaello per non sapere che dietro quel primato motrice non vi era nulla  da festeggiare.

Fin da piccolo, Raffaello sembrava portare su di sé il peso del mondo e ogni sua parola era un terremoto interiore per tutti quelli che lo ascoltavano.

Perciò lungi dall’esultare, istintivamente Antonio chiuse gli occhi è schiuse l’anima alla folgore notturna che s’avvinghiò alle sue  trombe di Eustachio dietro un inoppugnabile ragionamento.

“A differenza di noi maschietti che possediamo solo l’uccello e quindi un solo motore, proseguì Raffaello facendosi passo dopo passo più serio, “quando le donne si fanno sborrare sulle tette, è come se in realtà mettessero inconsciamente a nudo  il proprio cuore e si squartassero davanti a noi, e la carne non gli servisse ad altro che da  sinuoso casello per farci sconfinare nel Paese della loro anima…il loro secondo cuore, la loro vera dimora”.

“Forse è solo una mia illusione caro Antonio,  e le donne magari l’anima non c’è l’hanno, tipo i cani secondo i preti,  hai capito?  Questo mondo  però per me è solo dura scorza, massiccia pellaccia, e non posso accettare che le donne con tutte le funzioni cui devono assolvere abbiano un solo cuore e basta!”

“Accidenti proseguiva Raffaello sempre più infervorato mentre il freddo uncino della piana  gli  tranciava il fiato. Sarebbe  meraviglioso  ogni volta che eiaculiamo  sui seni di una donna, sentire rombare proprio qui, sulla giugulare, l’onnipotente consapevolezza che l’energia del nostro seme,possa penetrare la pelle potesse giungere  ad accarezzare entrambi i cuori una sotto una tetta l’altro sotto l’altra” !

Antonio dal canto suo, tormentato da inquietanti fragori, non sapeva se il quadro che il suo Raffaello aveva dipinto fosse più sconvolgente del temporale che di lì a poco si sarebbe scatenato nelle sue mutande, ma sapeva bene quanto l’uomo fosse  troppo legato a se stesso per darsi all’altro senza un’adeguata contropartita tecnica.

Col cuore ingolfato da questa dura consapevolezza, i due continuarono a passeggiare intimi nell’acquosità lunare sussurrando versi sublimi di Dino Campana e all’improvviso quel pazzo dolcissimo di Raffaello si mise a sussurrargli una sua poesia, così spontanea da far vibrare d’emozione le ciglia del cuore di Antonio il quale mentre attraversava la notte non riusciva a smettere di pensare un attimo a quel miracolo dell’istante che Raffaello aveva scolpito all’incrocio del suo cuore

La pietà. Così s’intitolava quella lirica che ora danzava accartocciata nella piega ignorante del suo debordante cappotto; parlava del lato femminile di un uomo, il quale, dopo l’orgasmo e la vertigine della passione, fragilmente, non ha alcun pudore di mostrarsi nudo nell’anima, quasi un neonato in braccio alla madre, agli occhi della donna appena amata, con le lacrime pronte ad abbracciarsi al seme abbandonato sul suo petto, giunti entrambi alla calda stazione del reciproco appagamento dove anziché eccitarsi, gli si rivela di colpo, in tutta la sua angelica purezza materna.





La voce tuona

Celebrandoti il seno

La luce si strozza

In cento stille di miele

Cento stille di sale

lacerano il miele

L’alba contempla

Il prodigio lucido del tuo grembo

Bambina occhi grandi sugli argini

Della vita

Il pescatore ha catturato

La madonnina di legno.



Così in quell’aureo spasmo di poesia di strada Raffaello era tornato all’origine.
Nella sua candida memoria allora il passo greve del tempo ancora non si era insinuato, non aveva frapposto il piede come un qualunque importuno venditore.
Viveva ogni giorno come  una promessa, scopriva i suoi segreti e nel recondito sottobosco della sua anima, respirava quell'aria così nuova, riempiendo con infantile saggezza tutti i vuoti.
Fu quando lo incontrò che Antonio ebbe memoria di sé, fu quando lo lasciò guardare il mare delle sue eterne ferite che Antonio fissò un punto d'origine al suo tempo: divampando l'incendio del ricordo.
Raffaello in quel suo lampo d’ingenuità, inconsapevole piromane, gli aveva appiccato nel cuore un desiderio che il tempo aveva accantonato nella rimessa del disusato e ora non aspettava altro che gettarsi ancora una volta nella tromba circolare della vita.
Ora uno dopo l’altro, come risvegliato da un millenario letargo, Antonio rammentava gli istanti in cui, arduo procedimento - soleva definire se l’amore fosse uno scorrere d'onde o il mezzo per vincere l'umana finitudine.
E in due, gli esseri umani, come animali sull'arca, andassero in cerca della sua salvezza, in cammino l'uno con l'altro, l'uno verso l'altro, fidando nel colore del cielo sopra le loro capanne.
  Ora quelle capanne erano vuote e ad attenderlo in salotto, c’era solo l’ora nuda della mancanza.
Era a quell'ora che più le mancava, quando le stelle appaiono nel cielo ed Espero brilla più viva riporta ogni cosa a casa, dice Saffo, figli e agnelli.
Quell'ora così dolce e così triste, quando nell'aria si leva il profumo delle magnolie e dei giacinti e il buio lo trovava solo davanti alla porta.
Antonio non dormì bene quella notte. Ustionato da quell’antica ritrovata penuria, faticò a levarsi il nero di seppia dagli occhi.
Ferruginoso il cielo del mattino come acqua di origine vulcanica - quasi sentiva quel gusto nella gola, il canto della terra lungo il tempo.
Un tempo nel quale anche lui come il suo piccolo amico aveva amato.
Un istante in cui il tempo perse la sua continuità, bloccò le molle e gli ingranaggi in quel giorno d'estate, mettendo sotto una campana di vetro il momento, l'odore di salsedine, gli oleandri, il tubare delle tortore.
Persino in quel momento, che era alle porte l'inverno e dietro le finestre, un cielo di perla attanagliava le cose, scatenando la sferza del maestrale, dentro di lui era ancora, è sempre lo splendido meraviglioso giugno dell'amore e le montagne blu nella foschia erano fondali di scena teatrale.  
Chiuse ancora una volta gli occhi per non dimenticarlo.
Sul palcoscenico tra tigli e platani anche quel giorno sarebbe andata in scena la vita.







domenica 9 novembre 2014

Alessandro Del Piero: 40 anni di rivincite



Alessandro Del Piero è stato un eccentrico che ha giocato per una squadra borghese amata follemente da tifosi moderati.  La versione italiana  in carne e ossa dell' Oliver Hutton  giapponese e cartonato con la testa così nel pallone da non accorgersi nemmeno dei camion dell’esistenza che negli anni hanno tentato di mettersi tra lui e l’amore della sua vita : il calcio. Ma Pinturicchio è anche un caso scientificamente interessante: andrebbe studiato nei corsi di management e o nelle facoltà di antropologia. Magari in tutte e due. È, infatti, la prova vivente della normalità del talento.  Quando è tanto e sai gestirlo puoi esportarlo dappertutto .

Non posso raccontare Alessandro Del Piero: lo fanno alla grande le sue pettinature (mai sgarbate) e quelle esultanze a lingua in libera uscita mix perfetto di serietà e sberleffo, abnegazione e voglia planetaria di stupire.  Anche dove di solito, si strabuzza gli occhi per altro, cercando un ultimo dribbling all’allampanata malinconia di chi, alla fine, dovrà svegliarsi da un fantastico sogno.

Un sogno nato il 9 novembre 1974  a Conegliano comune italiano di 35. 013 abitanti in provincia di Treviso, e cresciuto nel campo parrocchiale di Saccon e poi coccolato nella squadra del paese natale San Vendemiano scampato alle linee di una porta che lui, estremo difensore mancato, da raffinato attaccante, ha varcato poi per 315 volte. Senza mai eccedere in divismi da star, addominali scultorei, mutande possenti.  

Alessandro Del Piero macchina mondiale (non s’offenda dall’aldilà Paolo Volponi che una l’ha scritta nel 1965), di sponsor e flash fotografici, è figlio della sua terra. Conegliano, Veneto. La zona, posta a metà strada tra la montagna e la pianura e punto di passaggio per raggiungere il Friuli, fu da sempre un sito strategico E’, una città fascinosa e struggente, sdraiata sui monti come una bella donna di una certa età.   Irrobustito da tal  esperienza, come il Benjamin Braddock del film Il Laureato,  facile per Del Piero farsi stregare dalla Vecchia Signora. Debolezze per vecchie signore a parte, il Veneto è ancora un posto vivibile.  E di questa silenziosa vivibilità dedita al lavoro e all’abnegazione Del Piero ne è dinamico monumento, orgoglio che non è mai diventato boriosa importanza, in uggia a un successo consacratosi altrove. In barba alle creste di oggi fotogeniche sulle pagine dei giornali  spente sul rettangolo di un verde settimana dopo settimana, sempre più opaco..

Penso spesso a cosa avrebbe potuto fare Alessandro Del Piero, con quei piedi senza quel Marco  Zanchi, difensore dell’Udinese modello di una maglia identica, latore di un avverso destino contraddetto subito da un talento immenso. Quello di Alessandro Del Piero prontissimo a risorgere dalle sue ancestrali cicatrici. Quelle nel fisico prima, e dell’anima poi. Un giocatore che riusciva a trasformare un calcio di punizione in una svolta, ogni partita in una rivincita.  La sua gestione del talento è il riassunto di un carattere: quello dei veneti e degli italiani. Tutti. All’ennesima potenza. Nonostante qualche dissonante impostura separatista di cui sarebbe bene, è meglio, fare a meno. Dall’economia alla politica allo sport siamo spesso battuti da gente meno geniale di noi. Perché il genio non basta: occorre noiosa disciplina, banale costanza, pedante applicazione.

Cose che Alessandro Del Piero incarna e ha raffigurato in sovrana abbondanza.

Le rivincite di Alessandro: sarebbe un bel titolo per un romanzo. In copertina, la faccia di Gianni Agnelli e sullo sfondo tutti gli allenatori  che hanno avuto a che fare con la sua classe umano e rispettoso specchio della rabbia impotente e della gioia sublime degli juventini davanti allo  spettacolo offerto da Del Piero in questi diciotto anni di Juve e ventidue di calcio spesi tra Padova, Torino (sponda bianconera), e il mondo,  dopo l’esordio al fianco di gente come Ravanelli e Vialli al posto di quell’icona della palla a scacchi che è stato Roberto Baggio. Gioie e dolori distillate con sapienza, le une e le altre motivate e ragionevoli. Pinturicchio è uno che, se vuole, a quarant’anni compiuti, può schiacciare una zanzara sulla traversa con una punizione, e poi, fuori dal campo, chiudere la luce nello spogliatoio ultimo tra gli ultimi. Qualcuno soprattutto all’inizio della sua luminosa parabola, l’ha paragonato a Baggio, altro juventino talentuoso e mitico. Non sono d’accordo: il vicentino Baggio aveva più metodo nella licenza mistica del suo talento. Roberto Baggio, fin dagli inizi della sua carriera, racchiudeva nelle sue fragili articolazioni una tragica epifania. Del Piero è un cognome che sa di ossessivo lavoro, costante impegno, ciclico incanto.

E’ una fantasia ambulante di cui nemmeno lui riesce a fare a meno e nemmeno io. Son certo, che la società, l’allenatore e i compagni indiani cui ha messo a servizio la sua ancora purissima classe gli ripeteranno, in queste ore, dove il tramonto è più vicino, che potrebbe vincere le partite da solo, se solo il suo talento incorporato nello scheletro del sano gioco di squadra glielo impedisse. Dopo sei partite, è ancora a secco con la maglia nera e arancione dei Delhi Dynamos. Forse persino il fato è disorientato da questo inedito e inimmaginabile accostamento cromatico così lontano dall'amato bianconero. Non per Alessandro ovviamente pronto a tutto pur d’aggiungere nuovi colori alla tavolozza delle sue mirabilie.    Spero segni e vinca ancora, che se ne freghi dei tramonti, dei traguardi. Non servirebbe, non è mai servito. Alessandro Del Piero è schiavo dei suoi sogni e della sua passione, come qualsiasi ragazzo che corre lungo strade dissestate col pallone tra i piedi in quest’inizio d’autunno piovoso, e si sente più grande dei brasiliani e più forte degli argentini, sognando grandi platee anche se abita in uno scaracchio di provincia, tutto solo, là sotto.