Alessandro Del Piero è stato un
eccentrico che ha giocato per una squadra borghese amata follemente da tifosi
moderati. La versione italiana in carne e ossa dell'
Oliver Hutton giapponese e cartonato con
la testa così nel pallone da non accorgersi nemmeno dei camion dell’esistenza
che negli anni hanno tentato di mettersi tra lui e l’amore della sua vita : il
calcio. Ma Pinturicchio è anche un caso scientificamente interessante: andrebbe
studiato nei corsi di management e o nelle facoltà di antropologia. Magari in
tutte e due. È, infatti, la prova vivente della normalità del talento. Quando è tanto e sai gestirlo puoi esportarlo
dappertutto .
Non posso raccontare Alessandro Del Piero:
lo fanno alla grande le sue pettinature (mai sgarbate) e quelle esultanze a
lingua in libera uscita mix perfetto di serietà e sberleffo, abnegazione e
voglia planetaria di stupire. Anche dove
di solito, si strabuzza gli occhi per altro, cercando un ultimo dribbling all’allampanata
malinconia di chi, alla fine, dovrà svegliarsi da un fantastico sogno.
Un sogno nato il 9 novembre 1974 a Conegliano comune italiano di 35. 013
abitanti in provincia di Treviso, e cresciuto nel campo parrocchiale di Saccon
e poi coccolato nella squadra del paese natale San Vendemiano scampato alle
linee di una porta che lui, estremo difensore mancato, da raffinato attaccante,
ha varcato poi per 315 volte. Senza mai eccedere in divismi da star, addominali
scultorei, mutande possenti.
Alessandro Del Piero macchina mondiale (non s’offenda dall’aldilà
Paolo Volponi che una l’ha scritta nel 1965), di sponsor e flash fotografici, è
figlio della sua terra. Conegliano, Veneto. La zona, posta a metà strada tra la
montagna e la pianura e punto di passaggio per raggiungere il Friuli, fu da
sempre un sito strategico E’, una città fascinosa e struggente, sdraiata sui
monti come una bella donna di una certa età.
Irrobustito da tal esperienza,
come il Benjamin Braddock del film Il
Laureato, facile per Del Piero farsi
stregare dalla Vecchia Signora. Debolezze per vecchie signore a parte, il
Veneto è ancora un posto vivibile. E di
questa silenziosa vivibilità dedita al lavoro e all’abnegazione Del Piero ne è dinamico
monumento, orgoglio che non è mai diventato boriosa importanza, in uggia a un
successo consacratosi altrove. In barba alle creste di oggi fotogeniche sulle
pagine dei giornali spente sul
rettangolo di un verde settimana dopo settimana, sempre più opaco..
Penso spesso a cosa avrebbe potuto fare
Alessandro Del Piero, con quei piedi senza quel Marco Zanchi, difensore dell’Udinese modello di una
maglia identica, latore di un avverso destino contraddetto subito da un talento
immenso. Quello di Alessandro Del Piero prontissimo a risorgere dalle sue ancestrali
cicatrici. Quelle nel fisico prima, e dell’anima poi. Un giocatore che riusciva
a trasformare un calcio di punizione in una svolta, ogni partita in una
rivincita. La sua gestione del talento è
il riassunto di un carattere: quello dei veneti e degli italiani. Tutti. All’ennesima
potenza. Nonostante qualche dissonante impostura separatista di cui sarebbe
bene, è meglio, fare a meno. Dall’economia alla politica allo sport siamo
spesso battuti da gente meno geniale di noi. Perché il genio non basta: occorre
noiosa disciplina, banale costanza, pedante applicazione.
Cose che Alessandro Del Piero incarna e
ha raffigurato in sovrana abbondanza.
Le rivincite di Alessandro: sarebbe un
bel titolo per un romanzo. In copertina, la faccia di Gianni Agnelli e sullo
sfondo tutti gli allenatori che hanno avuto
a che fare con la sua classe umano e rispettoso specchio della rabbia impotente
e della gioia sublime degli juventini davanti allo spettacolo offerto da Del Piero in questi diciotto anni
di Juve e ventidue di calcio spesi tra Padova, Torino (sponda bianconera), e il
mondo, dopo l’esordio al fianco di gente
come Ravanelli e Vialli al posto di quell’icona della palla a scacchi che è
stato Roberto Baggio. Gioie e dolori distillate con sapienza, le une e le altre
motivate e ragionevoli. Pinturicchio è uno che, se vuole, a quarant’anni
compiuti, può schiacciare una zanzara sulla traversa con una punizione, e poi,
fuori dal campo, chiudere la luce nello spogliatoio ultimo tra gli ultimi.
Qualcuno soprattutto all’inizio della sua luminosa parabola, l’ha paragonato a
Baggio, altro juventino talentuoso e mitico. Non sono d’accordo: il vicentino
Baggio aveva più metodo nella licenza mistica del suo talento. Roberto Baggio,
fin dagli inizi della sua carriera, racchiudeva nelle sue fragili articolazioni
una tragica epifania. Del Piero è un cognome che sa di ossessivo lavoro,
costante impegno, ciclico incanto.
E’ una fantasia ambulante di cui nemmeno
lui riesce a fare a meno e nemmeno io. Son certo, che la società, l’allenatore
e i compagni indiani cui ha messo a servizio la sua ancora purissima classe gli
ripeteranno, in queste ore, dove il tramonto è più vicino, che potrebbe vincere
le partite da solo, se solo il suo talento incorporato nello scheletro del sano
gioco di squadra glielo impedisse. Dopo sei partite, è ancora a secco con la
maglia nera e arancione dei Delhi Dynamos. Forse persino il fato è disorientato
da questo inedito e inimmaginabile accostamento cromatico così lontano dall'amato
bianconero. Non per Alessandro ovviamente pronto a tutto pur d’aggiungere nuovi
colori alla tavolozza delle sue mirabilie. Spero segni e vinca ancora, che se ne freghi
dei tramonti, dei traguardi. Non servirebbe, non è mai servito. Alessandro Del
Piero è schiavo dei suoi sogni e della sua passione, come qualsiasi ragazzo che
corre lungo strade dissestate col pallone tra i piedi in quest’inizio d’autunno
piovoso, e si sente più grande dei brasiliani e più forte degli argentini,
sognando grandi platee anche se abita in uno scaracchio di provincia, tutto
solo, là sotto.
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