domenica 9 novembre 2014

Alessandro Del Piero: 40 anni di rivincite



Alessandro Del Piero è stato un eccentrico che ha giocato per una squadra borghese amata follemente da tifosi moderati.  La versione italiana  in carne e ossa dell' Oliver Hutton  giapponese e cartonato con la testa così nel pallone da non accorgersi nemmeno dei camion dell’esistenza che negli anni hanno tentato di mettersi tra lui e l’amore della sua vita : il calcio. Ma Pinturicchio è anche un caso scientificamente interessante: andrebbe studiato nei corsi di management e o nelle facoltà di antropologia. Magari in tutte e due. È, infatti, la prova vivente della normalità del talento.  Quando è tanto e sai gestirlo puoi esportarlo dappertutto .

Non posso raccontare Alessandro Del Piero: lo fanno alla grande le sue pettinature (mai sgarbate) e quelle esultanze a lingua in libera uscita mix perfetto di serietà e sberleffo, abnegazione e voglia planetaria di stupire.  Anche dove di solito, si strabuzza gli occhi per altro, cercando un ultimo dribbling all’allampanata malinconia di chi, alla fine, dovrà svegliarsi da un fantastico sogno.

Un sogno nato il 9 novembre 1974  a Conegliano comune italiano di 35. 013 abitanti in provincia di Treviso, e cresciuto nel campo parrocchiale di Saccon e poi coccolato nella squadra del paese natale San Vendemiano scampato alle linee di una porta che lui, estremo difensore mancato, da raffinato attaccante, ha varcato poi per 315 volte. Senza mai eccedere in divismi da star, addominali scultorei, mutande possenti.  

Alessandro Del Piero macchina mondiale (non s’offenda dall’aldilà Paolo Volponi che una l’ha scritta nel 1965), di sponsor e flash fotografici, è figlio della sua terra. Conegliano, Veneto. La zona, posta a metà strada tra la montagna e la pianura e punto di passaggio per raggiungere il Friuli, fu da sempre un sito strategico E’, una città fascinosa e struggente, sdraiata sui monti come una bella donna di una certa età.   Irrobustito da tal  esperienza, come il Benjamin Braddock del film Il Laureato,  facile per Del Piero farsi stregare dalla Vecchia Signora. Debolezze per vecchie signore a parte, il Veneto è ancora un posto vivibile.  E di questa silenziosa vivibilità dedita al lavoro e all’abnegazione Del Piero ne è dinamico monumento, orgoglio che non è mai diventato boriosa importanza, in uggia a un successo consacratosi altrove. In barba alle creste di oggi fotogeniche sulle pagine dei giornali  spente sul rettangolo di un verde settimana dopo settimana, sempre più opaco..

Penso spesso a cosa avrebbe potuto fare Alessandro Del Piero, con quei piedi senza quel Marco  Zanchi, difensore dell’Udinese modello di una maglia identica, latore di un avverso destino contraddetto subito da un talento immenso. Quello di Alessandro Del Piero prontissimo a risorgere dalle sue ancestrali cicatrici. Quelle nel fisico prima, e dell’anima poi. Un giocatore che riusciva a trasformare un calcio di punizione in una svolta, ogni partita in una rivincita.  La sua gestione del talento è il riassunto di un carattere: quello dei veneti e degli italiani. Tutti. All’ennesima potenza. Nonostante qualche dissonante impostura separatista di cui sarebbe bene, è meglio, fare a meno. Dall’economia alla politica allo sport siamo spesso battuti da gente meno geniale di noi. Perché il genio non basta: occorre noiosa disciplina, banale costanza, pedante applicazione.

Cose che Alessandro Del Piero incarna e ha raffigurato in sovrana abbondanza.

Le rivincite di Alessandro: sarebbe un bel titolo per un romanzo. In copertina, la faccia di Gianni Agnelli e sullo sfondo tutti gli allenatori  che hanno avuto a che fare con la sua classe umano e rispettoso specchio della rabbia impotente e della gioia sublime degli juventini davanti allo  spettacolo offerto da Del Piero in questi diciotto anni di Juve e ventidue di calcio spesi tra Padova, Torino (sponda bianconera), e il mondo,  dopo l’esordio al fianco di gente come Ravanelli e Vialli al posto di quell’icona della palla a scacchi che è stato Roberto Baggio. Gioie e dolori distillate con sapienza, le une e le altre motivate e ragionevoli. Pinturicchio è uno che, se vuole, a quarant’anni compiuti, può schiacciare una zanzara sulla traversa con una punizione, e poi, fuori dal campo, chiudere la luce nello spogliatoio ultimo tra gli ultimi. Qualcuno soprattutto all’inizio della sua luminosa parabola, l’ha paragonato a Baggio, altro juventino talentuoso e mitico. Non sono d’accordo: il vicentino Baggio aveva più metodo nella licenza mistica del suo talento. Roberto Baggio, fin dagli inizi della sua carriera, racchiudeva nelle sue fragili articolazioni una tragica epifania. Del Piero è un cognome che sa di ossessivo lavoro, costante impegno, ciclico incanto.

E’ una fantasia ambulante di cui nemmeno lui riesce a fare a meno e nemmeno io. Son certo, che la società, l’allenatore e i compagni indiani cui ha messo a servizio la sua ancora purissima classe gli ripeteranno, in queste ore, dove il tramonto è più vicino, che potrebbe vincere le partite da solo, se solo il suo talento incorporato nello scheletro del sano gioco di squadra glielo impedisse. Dopo sei partite, è ancora a secco con la maglia nera e arancione dei Delhi Dynamos. Forse persino il fato è disorientato da questo inedito e inimmaginabile accostamento cromatico così lontano dall'amato bianconero. Non per Alessandro ovviamente pronto a tutto pur d’aggiungere nuovi colori alla tavolozza delle sue mirabilie.    Spero segni e vinca ancora, che se ne freghi dei tramonti, dei traguardi. Non servirebbe, non è mai servito. Alessandro Del Piero è schiavo dei suoi sogni e della sua passione, come qualsiasi ragazzo che corre lungo strade dissestate col pallone tra i piedi in quest’inizio d’autunno piovoso, e si sente più grande dei brasiliani e più forte degli argentini, sognando grandi platee anche se abita in uno scaracchio di provincia, tutto solo, là sotto. 

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