Se Fabio Fazio l’anno scorso sguazzava
nella grande bellezza, Carlo Conti quest’anno sgomma nella carogna vecchiaia
altrimenti detta nostalgica tradizione. Tutto sembra chiarire questa grigia sfumatura.
Dagli uomini in nero, alle donne in bianco. Tanto languide da scorrere sull’ambito
palco come candidi ruscelli in estemporanei idilli. Talmente improvvisi da
apparire radiose epifanie in una vallata grigia e bloccata. Così saldata a se
stessa da eliminare subito i Kutso un curioso mix tra la Bandabardò e Billi
Ballo a vantaggio di un più inquadrato e servizievole Giovanni Caccamo. Chi è?
Un volto da poster cui in questi mesi qualche ragazzina dalla salivazione esuberante
attaccherà un impulso simile alla venerazione.
Poi, in preda a ben altre eruzioni e deferenze, seppellirà in cantina
onnipresente a ogni trasloco.
Passando alla gara in assenza di
sinuose aderenze che facciano alzare il ludibrio di un incanto annullato dall’incedere
di un improrogabile, scaletta, è bene soffermarsi sui volti di un festival
molto pop è poco cool. Bellissimo quello di Virginia Raffaele. Monologo
incluso. Peccato sia arrivata troppo tardi a
rimpinguare il nutrito viavai di ospiti.
Ci son stati tutti a questo Festival di
Sanremo, e c’è ne saranno ancora, da
Ferrero a Conte, da Siani a Cirilli. Dovevano raccontare l’umore del paese: ne
hanno svelato il volto invece. Opaco, imbarazzato, stanco. Affaticato dal tarlo d’imitare se stesso più
che dall’onere di parlare agli altri e magari indicare una strada.
Tra i cantanti salvo Nina Zilli. L’unica
che a mio avviso potrebbe uscir da lì con le palle giuste e affrontare palchi
più impegnativi, Annalisa, che vorrebbe e potrebbe fare di più se Kekko
Silvestre non gli rompesse gli estrogeni nelle ovaie con canzoni troppo
modaiole perché facciano tendenza. Quella che fa Malika Ayane capace di far
diventare un apparecchio ortodontico un dispositivo d’inediti sogni acustici. E poi c’è Nesli. Apprezzabile il suo tentativo
d’uscire fuori dal trip del rap ed entrare a passo felpato in quell’intrico
complicato e scivoloso della vita vera. Quella da cui potrebbe fuggire il
funereo Raf di questi giorni e non merita di stare la patinata Anna Tatangelo
di queste sere. Troppo finta per rappresentare l’Italia affranta di questi mesi. Quest’ultima è stata eliminata
come l’intrusa Lara Fabian e i pessimi Soliti Idioti. In compenso s’è salvato il
deretano di Mauro Coruzzi. Speriamo basti Grazia Di Michele a fargli da ancora.
Intanto l’ha salvato la storia di una difficile convivenza con se stesso e con gli
altri. Come se non bastasse Barbara D’Urso a far da anticamera di storie
convulse e borderline, ecco spuntare un equivoco anche a Sanremo. Un tempo
regno del bel canto italiano, ora monarchia assoluta di sgolati spifferi.
Intendiamoci non che i ragazzi del Volo
e il sopracciglio irato di Marco Masini la rappresentino bene e il bimbetto Moreno, la rappino meglio.
Ma almeno urlano e fanno casino più di
questo mogio Festival di Sanremo. Uno spettacolo pop dai toni retrò. Molto retrò,
pure troppo.
Meno male che a sconvolgerlo ci ha
pensato la sana follia di Sammy Basso afflitto dalla Progeria altrimenti, detta
invecchiamento precoce.
Sarò cieco io, ma cari lettori ma soprattutto preziose lettrici credetemi: in mezzo a
tutte quelle vetuste, imbalsamate, marionette, mi è sembrato il più giovane,
dinamico e volitivo di tutti.
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