Figli del tubo catodico, avvinti da
nostalgia canaglia, non potevano essere che gli acuti tenorili de Il Volo a trionfare
nell’ottocentesca sala da tè allestita in queste notti mannare dal Festival di
Sanremo.
Un successo pudico e casalingo quello
della RAI che dimostra quanto il Paese sia incapace d’andare oltre i propri
limiti, affidando le sue attempate velleità a supposte ambizioni e antiquate
estensioni.
Perché aldilà della facile lacrimuccia
non credo che i brufoli di una quindicenne evaporino di schianto allo stridio
di un grande amore.
Un sentimento volubile che tuonanti
saette acustiche non rendono più saldo.
Incanta però, vincolandoci all’istante. Come
in una spiumata istantanea di giovinezze
devastate da un tempo scagliato altrove.
In uno scantinato recondito della nostra
memoria, dove qualcuno più libero e visionario dello statico Carlo Conti di
queste sere, costruisce una storia autentica che invita tutti a identificarsi,
guardarsi con tenerezza, e infine ridere di noi stessi.
Perché alla fine una risata ci
seppellirà. Un grande amore non fa dormire.
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