Antonio non sapeva attendere. Far la cresta all’istante invecchia il momento è tutto
secca sospeso e non vissuto.
Ecco
perché quanto faceva quell’uomo lo stupiva moltissimo.
Giungeva
pochi minuti prima di mezzogiorno con una puntualità assoluta micidiale e una
determinazione desiderosa di radici e invece dove sostava non era altro che un
angolo generico e confuso, avvilito in un pulviscolo di strade abbandonate e solitarie. Perché
in certi posti, il rumore è solo un pretesto per giustificare una fuga e
legittimare un inevitabile isolamento.
Forse
queste cose le sapeva anche il violinista di Dooney come Antonio, appassionato
di Angelo Branduardi ed eroiche solitudini, aveva subito soprannominato quel mozzo d’uomo così coraggioso da sperar di
toccar terra in quella burrasca d’anime deserte preoccupate solo della loro
fretta di non arrivare da nessuna parte.
Forse
quell’uomo sapeva anche questo, ma nulla sembrava turbare la sua personale liturgia
d’evasione e speranza.
Raggiunto
il suo pestato palcoscenico, si fermava sul marciapiede, apriva la custodia, la
lasciava a terra, davanti a sé, ne estraeva un violino, lo imbracciava (o forse
lo abbracciava chissà'), e Poi… Poi… Poi… Poi basta. Perché poi non suonava
nulla. Non subito almeno. Lui posticipava, prorogava. Prendeva tempo. Un tempo
infinito. Gomitoli di attimi, maglioni d’istanti che si dipanavano e si
sfrangiavano a dismisura e rotolavano via ogni giorno di più, ogni giorno più
lunghi e consumati. Del resto, tutte le volte che Antonio lo aveva incontrato, egli
non gli aveva mai dato l’idea d’avere alcuna fretta. Sembrava vivere un altro tempo cui la
semplice sussistenza era estranea. Sembrava fatto d’aria e aspettasse da
chissà' chi il permesso d’aderire alla vita. Aspettare. Pareva quello il suo
mestiere. All’inizio Antonio pensava fosse una cosa studiata. Ne aveva visti
molti di questi kamikaze a tempo indeterminato che immolavano se stessi per la
risoluzione di problemi privati o pubblici senza grossi risultati a dire il
vero, ma s’immolavano i cristi e quantomeno potevano raccontare agli amici il
loro giorno da Gesù’.
Ma
il suo silenzio monco di sorrisi soffocati
nelle tasche, quella parsimonia metodica e assassina nei movimenti, svelava qualcosa di
più di una dignità artistica in rivolta.
Forse,
si era perso negli abbagli dell’esistenza e non sapeva come chiedere aiuto. Ma
come poteva un naufrago aggrapparsi ad altri superstiti?
Non
poteva per cui si limitava a osservarli con la muta consapevolezza essi non
potessero far niente per se stessi, non potessero far nulla per lui.
L’unica
cosa che pareva dargli gioia e soddisfazione era il suo violino. Un violino un
po’ muto e un po’ no, capace di suonare note autentiche e spontanee.
Antonio
con la sua umiltà nemica d’ogni viltà seppe subito il motivo di quella bizzarra
consuetudine.
In
quelle ore, in quei minuti, che nelle case d’ogni altro essere umano,
sancivano unione, condivisione solidarietà, il sentimento di una vita, l’amore
che dilatava ogni suo giorno nelle delicate promesse di un dorato avvenire, lo
aveva abbandonato tanto tempo addietro. Senza troppe parole, senza eccessive
spiegazioni. Un momento prima lo guardava negli occhi, e un momento dopo gli
aveva voltato le spalle. Tutto semplice, tutto qui. Titoli di coda, musica
triste in sottofondo e addio. Un addio indolore, illeso, inspiegabile.
In
quell’arcano abbandono lei aveva mostrato un notevole talento omicida: aveva
reciso il loro legame troncandolo di netto spietata, crudele, come chi sferra
una coltellata alla strozza di un infante.
A “domani
“ gli aveva detto sapendo bene che non ci sarebbe stato alcun futuro per quel
sentimento da lei furtivamente esposto alla ruota dell’abbandono. Poi, lei, radunando, nervi muscoli e pensieri sui suoi
passi migranti e mendaci, s’era allontanata sempre più, fino ad abbandonarlo a
se stesso. come un cane senza più una traccia sicura da seguire, senza più un
trillo nella voce da riconoscere, senza nemmeno un guinzaglio di chiodi a cui
sfuggire.
Benché
fossero passate intere ere geologiche da quel silenzioso olocausto, lui
continuava a ritagliarsi quei discreti istanti di statica devozione ogni
giorno, alla stessa ora, alle dodici e qualche minuto certo, quel “a domani”
invecchiato d’amore e nostalgia nella memoria, avrebbe trovato il suo elisir di
giovinezza in un improvviso moto di prodiga accoglienza.
Nell’attesa
di rivedere la mano che per prima, aveva sfregato la sua geniale lampada,
restava immobile tutto il tempo, senza staccarsi dal suo violino.
Lo
stringeva a se senza suonare neppure una nota anche per ore e ore, pure zuppo
di pioggia, pure sotto il sole d’agosto
che secca tutto, pure sotto il gelo di gennaio che prende a pugni la natura e
incattivisce il vento a tal punto che anche gli alberi battono i denti
atterriti.
Osservandolo
con più attenzione, Antonio capì. Non si stava sbagliando. Non si sbagliava.
Quel violino per quell’uomo non era l’armoniosa serranda all’ennesima luna
stonata della sua esistenza. Era la sua vita.
La sua vita racchiusa in un abbraccio denso d’attesa come se un grido
nell’anima lo stesse atrofizzando silente guardiano di un tempo immoto, come se
una voce gli intimasse di tener fede all’impegno preso e non muoversi da lì.
Era
un’attesa continua ma mai banale. Era l’attesa di un sentimento ribaltato, e
per questo ancora più barbaro e difficile da sopportare. Era un’attesa selvaggia, di quelle
che obbligano a cercare senza trovare, che impongono la strada perché non c’è
più una casa dove tornare. Era una dolorosa fiducia, una speranza amara
quella sospensione. L’indugio di un cane sull’uscio di una casa ormai disabitata da
secoli.
Poi
all’improvviso le sue mani si animavano di una leggiadria insospettabile e
finalmente cominciavano a suonare. Un concerto assurdo, inconcepibile,
inaudito.
Di
una sola nota una appena, una soltanto, nell’insindacabile sequenza della scala
musicale. Il suo era un concerto breve e intenso. Era musica a immagine di una lei
che non c’era. Era un preludio di una sinfonia cui solo lei avrebbe potuto dare
senso. Un contorno privo di sguardo. Perché come il suo nessuno mai. Ed era
tutta lì: in un delicato e leggero scivolare dell’archetto sulle corde. Il
figlio di tanta cura era un infante leggero e appena percettibile in quella
trafficata combustione d’umani affanni, era un vagito che veniva dalle sue
stesse mani indifferente alla barriera di legno imposta dallo scheletro del
violino come se in quel rapido sfiorare egli non ricercasse la perfezione di una nota
ma la realtà di un sodo incanto. Un giorno era un sol, un altro un do, un altro
ancora un mi e via cosi fino a esaurire il pentagramma. Fino a evacuare un
altro giorno assente, fino a un altro lontano, utopistico, spostato assenso.
Antonio
non seppe mai se le cose stavano davvero così, ma era convinto che
quell’anonimo musicante come tutti gli uomini in fondo, stesse in piedi per
quell’assenso.
Per
quella cosa che ti fa alzare la mattina e ti fa arrivare alla fine della
settimana senza pensare siano solo giorni in cui il lavoro è il nobile ninnolo di
una profonda solitudine, è tutto si riduce a quell’attimo, quell’unico istante in
cui un uomo può esser se stesso per davvero, fino in fondo.
Perché
il fondo, se condiviso, può essere l’inizio di un progetto di vita. La sua, si era
allontanata solo di un altro sole seppur remoto e presto sarebbe ritornata. Tanto
gli aveva promesso e tanto avrebbe mantenuto. Indi per cui tutto quello che lui
doveva fare era aspettare con fiducia, ottimismo e pazienza. Come i cani che
fino al ritorno dei loro bipedi amori non toccano cibo acqua giochi. Guaiscono e
basta, ad intermittenze regolari, giusto per rammentare a se stessi che son
ancora vivi, seppur, soli.
Le
loro attese son sospiri e silenzi, dedizione e affetto, fino all’apparire del
loro osso dal pollice opponibile e allora subito orecchie tese ed occhi sgranati ecco
profilarsi un nuovo futuro da accogliere con un cuore nuovo perché quello
vecchio s’è usurato d’infelicità e la felicità val bene una permuta. Perché tutto
è possibile quando si è felici. Anche accantonare la calma ed abbaiare al
vento, alle stelle senza l’opprimente museruola
del contegno. Perché un uomo che attende, è un cane che scodinzola pari sono
nella scala del sentimento e forse quell’uomo lo aveva capito senza vergognarsene.
In
quei concerti non vi era nessun’armonia, nota che facesse intuire un’effettiva
conoscenza dello strumento. Ma tutto quello che generava quell’incontro di mani
e sentimenti era una epifania spontanea,
immediata diretta e non mancava di far centro nei cuori stupiti dei suoi
spettatori per i quali quei concerti di
muta speranza e instancabile dedizione cominciavano ad essere degli irrinunciabili e misteriosi
insegnamenti di vita.
Era
impossibile non notare la grazia e la purezza di quei gesti. Talmente puri, da far sparire il traffico, ingolfare i tubi di
scappamento, impallidire i semafori, rompere il silenzio, ed aprire il cuore di tutti
alla benevolenza.
In
quel movimento impercettibile e solitario c’era tutto il suo amore. La gente lo
aveva capito e cercava d’aiutarlo come poteva rifocillandolo e assistendolo. Ma lui
non rispondeva mai ai loro gesti d'affetto. Egli viveva nel suo passato e una volta
finito il suo nostalgico assolo egli non c’era già più fuggendo all'imbrunire col pensiero rivolto a un ricordo. Un
ricordo colmo di un amore immenso. Una vastità che lui aveva deciso di
attraversare fino in fondo, anche dai margini del silenzio.
Un
silenzio così chiassoso Antonio in vita sua, non lo ascoltò più.
Se
ne ricordava spesso la sera quando accarezzando il suo spaniel, si rendeva
conto che il fruscio fresco e rassicurante delle sue mani era l’unico modo che
aveva per manifestare al suo peloso coinquilino la sua presenza, per dirgli che era accanto a lui e che non desiderava null'altro in cambio . Perché amare qualcuno, portare nel cuore un
sentimento, è un patto gratuito stipulato con l’eternità.
Quel
musico silente e solitario lo sapeva. Antonio col viso affondato nella pancia del suo piccolo amico a quattro zampe lo stava imparando. Tutti gli altri a quanto sembrava no.
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