martedì 5 agosto 2014

Il violinista di Dooney



Antonio non sapeva attendere. Far la cresta all’istante invecchia il momento è tutto secca sospeso e non vissuto.

Ecco perché quanto faceva quell’uomo lo stupiva moltissimo.

Giungeva pochi minuti prima di mezzogiorno con una puntualità assoluta  micidiale e una determinazione desiderosa di radici e invece dove sostava non era altro che un angolo generico e confuso, avvilito in un pulviscolo di strade abbandonate e solitarie. Perché in certi posti, il rumore è solo un pretesto per giustificare una fuga e legittimare un inevitabile isolamento.

Forse queste cose le sapeva anche il violinista di Dooney come Antonio, appassionato di Angelo Branduardi ed eroiche solitudini, aveva  subito soprannominato  quel mozzo d’uomo così coraggioso da sperar di toccar terra in quella burrasca d’anime deserte preoccupate solo della loro fretta di non arrivare da nessuna parte.

Forse quell’uomo sapeva anche questo, ma nulla sembrava turbare la sua personale liturgia d’evasione e speranza.

Raggiunto il suo pestato palcoscenico, si fermava sul marciapiede, apriva la custodia, la lasciava a terra, davanti a sé, ne estraeva un violino, lo imbracciava (o forse lo abbracciava chissà'), e Poi… Poi… Poi… Poi basta. Perché poi non suonava nulla. Non subito almeno. Lui posticipava, prorogava. Prendeva tempo. Un tempo infinito. Gomitoli di attimi, maglioni d’istanti che si dipanavano e si sfrangiavano a dismisura e rotolavano via ogni giorno di più, ogni giorno più lunghi e consumati. Del resto, tutte le volte che Antonio lo aveva incontrato, egli non gli aveva mai dato l’idea d’avere alcuna fretta.  Sembrava vivere un altro tempo cui la semplice sussistenza era estranea. Sembrava fatto d’aria e aspettasse da chissà' chi il permesso d’aderire alla vita. Aspettare. Pareva quello il suo mestiere. All’inizio Antonio pensava fosse una cosa studiata. Ne aveva visti molti di questi kamikaze a tempo indeterminato che immolavano se stessi per la risoluzione di problemi privati o pubblici senza grossi risultati a dire il vero, ma s’immolavano i cristi e quantomeno potevano raccontare agli amici il loro giorno da Gesù’.

Ma il suo silenzio monco di sorrisi soffocati  nelle tasche, quella parsimonia metodica e  assassina nei movimenti, svelava qualcosa di più di una dignità artistica in rivolta.

Forse, si era perso negli abbagli dell’esistenza e non sapeva come chiedere aiuto. Ma come poteva un naufrago aggrapparsi ad altri superstiti?

Non poteva per cui si limitava a osservarli con la muta consapevolezza essi non potessero far niente per se stessi, non potessero far nulla per lui.

L’unica cosa che pareva dargli gioia e soddisfazione era il suo violino. Un violino un po’ muto e un po’ no, capace di suonare note autentiche e spontanee.

Antonio con la sua umiltà nemica d’ogni viltà seppe subito il motivo di quella bizzarra consuetudine.

In quelle ore, in quei minuti, che nelle case d’ogni altro essere umano, sancivano unione, condivisione solidarietà, il sentimento di una vita, l’amore che dilatava ogni suo giorno nelle delicate promesse di un dorato avvenire, lo aveva abbandonato tanto tempo addietro. Senza troppe parole, senza eccessive spiegazioni. Un momento prima lo guardava negli occhi, e un momento dopo gli aveva voltato le spalle. Tutto semplice, tutto qui. Titoli di coda, musica triste in sottofondo e addio. Un addio indolore, illeso, inspiegabile.

In quell’arcano abbandono lei aveva mostrato un notevole talento omicida: aveva reciso il loro legame troncandolo di netto spietata, crudele, come chi sferra una coltellata alla strozza di un infante.

A “domani “ gli aveva detto sapendo bene che non ci sarebbe stato alcun futuro per  quel sentimento da lei furtivamente esposto alla ruota dell’abbandono. Poi, lei,  radunando, nervi muscoli e pensieri sui suoi passi migranti e mendaci, s’era allontanata sempre più, fino ad abbandonarlo a se stesso. come un cane senza più una traccia sicura da seguire, senza più un trillo nella voce da riconoscere, senza nemmeno un guinzaglio di chiodi a cui sfuggire.

Benché fossero passate intere ere geologiche da quel silenzioso olocausto, lui continuava a ritagliarsi quei discreti istanti di statica devozione ogni giorno, alla stessa ora, alle dodici e qualche minuto certo, quel “a domani” invecchiato d’amore e nostalgia nella memoria, avrebbe trovato il suo elisir di giovinezza in un improvviso moto di prodiga accoglienza.

Nell’attesa di rivedere la mano che per prima, aveva sfregato la sua geniale lampada, restava immobile tutto il tempo, senza staccarsi dal suo violino.

Lo stringeva a se senza suonare neppure una nota anche per ore e ore, pure zuppo di pioggia,  pure sotto il sole d’agosto che secca tutto, pure sotto il gelo di gennaio che prende a pugni la natura e incattivisce il vento a tal punto che anche gli alberi battono i denti atterriti.

Osservandolo con più attenzione, Antonio capì. Non si stava sbagliando. Non si sbagliava. Quel violino per quell’uomo non era l’armoniosa serranda all’ennesima luna stonata della sua esistenza. Era la sua vita.  La sua vita racchiusa in un abbraccio denso d’attesa come se un grido nell’anima lo stesse atrofizzando silente guardiano di un tempo immoto, come se una voce gli intimasse di tener fede all’impegno preso  e non muoversi da lì.

Era un’attesa continua ma mai banale. Era l’attesa di un sentimento ribaltato, e per questo ancora più barbaro e difficile da sopportare. Era un’attesa selvaggia, di quelle che obbligano a cercare senza trovare, che impongono la strada perché non c’è più una casa dove tornare. Era una dolorosa fiducia, una speranza amara quella sospensione. L’indugio di un cane sull’uscio di una casa ormai disabitata da secoli.

Poi all’improvviso le sue mani si animavano di una leggiadria insospettabile e finalmente cominciavano a suonare. Un concerto assurdo, inconcepibile, inaudito.

Di una sola nota una appena, una soltanto, nell’insindacabile sequenza della scala musicale. Il suo era un concerto breve e intenso. Era musica a immagine di  una lei che non c’era. Era un preludio di una sinfonia cui solo lei avrebbe potuto dare senso. Un contorno privo di sguardo. Perché come il suo nessuno mai. Ed era tutta lì: in un delicato e leggero scivolare dell’archetto sulle corde. Il figlio di tanta cura era un infante leggero e appena percettibile in quella trafficata combustione d’umani affanni, era un vagito che veniva dalle sue stesse mani indifferente alla barriera di legno imposta dallo scheletro del violino come se in quel rapido sfiorare  egli non ricercasse la perfezione di una nota ma la realtà di un sodo incanto. Un giorno era un sol, un altro un do, un altro ancora un  mi e via cosi fino a esaurire il pentagramma. Fino a evacuare un altro giorno assente, fino a un altro lontano, utopistico, spostato assenso.

Antonio non seppe mai se le cose stavano davvero così, ma era convinto che quell’anonimo musicante come tutti gli uomini in fondo, stesse in piedi per quell’assenso.

Per quella cosa che ti fa alzare la mattina e ti fa arrivare alla fine della settimana senza pensare siano solo giorni in cui il lavoro è il  nobile ninnolo di una profonda solitudine, è tutto si riduce a quell’attimo, quell’unico istante in cui un uomo può esser se stesso per davvero, fino in fondo.

Perché il fondo, se condiviso, può essere l’inizio di un progetto di vita. La sua, si era allontanata solo di un altro sole seppur remoto e presto sarebbe ritornata. Tanto gli aveva promesso e tanto avrebbe mantenuto. Indi per cui tutto quello che lui doveva fare era aspettare con fiducia, ottimismo e pazienza. Come i cani che fino al ritorno dei loro bipedi amori non toccano cibo acqua giochi. Guaiscono e basta, ad intermittenze regolari, giusto per rammentare a se stessi che son ancora vivi, seppur, soli.

Le loro attese son sospiri e silenzi, dedizione e affetto, fino all’apparire del loro osso dal pollice opponibile e allora subito  orecchie tese ed occhi sgranati ecco profilarsi un nuovo futuro da accogliere con un cuore nuovo perché quello vecchio s’è usurato d’infelicità e la felicità val bene una permuta. Perché tutto è possibile quando si è felici. Anche accantonare la calma ed abbaiare al vento, alle stelle senza l’opprimente  museruola del contegno. Perché un uomo che attende, è un cane che scodinzola pari sono nella scala del sentimento e forse quell’uomo lo aveva capito senza vergognarsene.

In quei concerti non vi era nessun’armonia, nota che facesse intuire un’effettiva conoscenza dello strumento. Ma tutto quello che generava quell’incontro di mani e sentimenti era  una epifania spontanea, immediata diretta e non mancava di far centro nei cuori stupiti dei suoi spettatori per i quali quei concerti  di muta speranza e instancabile dedizione cominciavano ad essere degli irrinunciabili e misteriosi insegnamenti di vita.

Era impossibile non notare la grazia e la purezza di quei gesti. Talmente puri, da  far sparire il traffico, ingolfare i tubi di scappamento, impallidire i semafori, rompere il silenzio, ed aprire il cuore di tutti alla benevolenza.

In quel movimento impercettibile e solitario c’era tutto il suo amore. La gente lo aveva capito e cercava d’aiutarlo come poteva rifocillandolo e assistendolo. Ma lui non rispondeva mai ai loro gesti d'affetto. Egli viveva nel suo passato e una volta finito il suo nostalgico assolo egli non c’era già più fuggendo all'imbrunire col pensiero rivolto a un ricordo. Un ricordo colmo di un amore immenso. Una vastità che lui aveva deciso di attraversare fino in fondo, anche dai margini del silenzio.

Un silenzio così chiassoso Antonio in vita sua, non lo ascoltò più.

Se ne ricordava spesso la sera quando accarezzando il suo spaniel, si rendeva conto che il fruscio fresco e rassicurante delle sue mani era l’unico modo che aveva per manifestare al suo peloso coinquilino la sua presenza, per dirgli che era accanto a lui e che non desiderava null'altro in cambio . Perché amare qualcuno, portare nel cuore un sentimento, è un patto gratuito  stipulato con l’eternità.

Quel musico silente e solitario lo sapeva. Antonio  col viso affondato nella pancia del suo piccolo amico a quattro zampe lo stava imparando.  Tutti gli altri a quanto sembrava  no.


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