mercoledì 19 maggio 2010

Il mio piede sinistro a New York


Una delle cose più difficili nella vita di tutti i giorni è come ammazzare il tempo.
Sembra impossibile in un’epoca nella quale alla fine si trova sempre il modo di sfuggire ad una realtà sempre più opprimente e angosciante ma è così.
Sfuggire, scappare, via lontano dove nessuno ti conosce, può farti domande, indagare su di te, su di me, su di noi sul genere umano che sta sfumando sempre più che si sta dissipando dissipandosi, spegnendo ogni gemito di vita attorno a lui aspettando tacitamente la propria morte. O forse no, in verità io penso sia il mondo già morto da tempo, solo che non lo sa e penso non ci tenga a saperlo. Troppo comodo .E poi dove sarebbe l’effetto sorpresa? E la diretta televisiva? Non c è? Allora non è possibile!
Quelli che mi conoscono affermano che io sia un presuntuoso. Non li smentirò, e in anteprima vi svelerò perché il mondo ha le ore contate,
Il mondo in cui viviamo è assorbito da uno spesso strato di merda all’interno del quale tutto dalle cose più grandi, mastodontiche, gigantesche alle cose infinitamente piccole, sembrano ormai destinate a sparire, disintegrarsi, eclissarsi di fronte all’indifferenza dell’uomo, che ormai non sa più sognare. A tal proposito io l’altra sera ne ho fatto uno grandissimo, straordinario, stupendo che avrei voluto corrispondesse alla verità, o almeno avrei voluto fosse durato un po’ di più, tanto da potermi considerare davvero normale. Totalmente umano. In voi probabilmente non susciterà nulla, ma non importa, ve lo voglio raccontare lo stesso, per farvi rendere conto di quanto siate sciocchi e frettolosi nel giudicare, dimenticando la dignità che può avere un oggetto umile ma indispensabile come una scarpa una di quelle normali, senza fronzoli. Una di quelle che si comprano quasi senza accorgertene. ”Un paio di scarpe in più fa sempre comodo averle a portata di mano. Chissà mai non possano servire!” aveva detto al negoziante stupito per quell’acquisto tanto strano quanto inconsueto. Ero una delle tante quindi. Ho almeno così mi era sembrato di capire dalle parole del mio padrone uno scozzese tale Paul Mc Gregor, 42 anni, meccanico, 3 figli e una moglie a carico e una passione sfrenata per l’atletica.
Già l’atletica. Una passione che aveva sempre covato dentro di sé, ma che il matrimonio affrettato e la nascita prematura dei suoi figli avevano sopito. La fiamma agonistica era destinata a riaccendersi in lui, ne ero convinta. Gli bastava un’occasione e si sarebbe buttato di nuovo nella mischia. L’occasione venne. Ed era di quelle importanti. La maratona di New York. Paul, che aveva sempre letto quasi tutto sulla Grande Mela, non si lasciò sfuggire la ghiotta occasione. Voleva scoprire New York attraverso la maratona. Non era fesso, in effetti, la corsa avrebbe toccato tutti e cinque i quartieri: Staten Island, Brooklyn, Qeens, Manhattan, Bronx.
Più che un corridore entusiasta di partecipare ad una massacrante festa dello sport amatoriale, il mio padrone sembrava d’improvviso essere diventato una sonda pronta a penetrare ed esplorare quella città anche nelle più segrete cavità naturali, anche nelle viscere.
Qualcuno di voi, gabbiani che volate alti sontuosi sopra questo cimitero, in cui sono finita, si chiederà perché continui a dire “ mio padrone”. Ve lo spiego subito, senza indugi. Paul, infatti, suscitando l’invidia delle mie colleghe, aveva scelto me, l’ultima arrivata. Non so per quale motivo e non m’importava. Ma ci pensate da comprimaria in uno squallido retrobottega di un vecchio rigattiere prossimo alla pensione, alla maratona di New York !
Che emozione!!!
Scendendo dal pullman a Staten Island avevo la sindrome di Colombo. Davanti c’era l’America da conquistare. Sin dall’alba la piana di Fort Wadsworth, dove un tempo correvano gli Irochesi, era invasa. Sul prato davanti a me, c’erano 62.523 paia di scarpe. Molte giovani, con lacci eleganti e profili da modella, splendide nei finimenti come purosangue da parata. Mi sorridevano con la simpatia che si riserva alle vecchie zie. Io, indifferente, m’inoltravo stupefatta in quella foresta di gambe che danzavano. Erano gambe bianche, nere, gialle. Proprio di tutti i colori. L’arcobaleno più strano che avessi mai visto.
L’attesa era percorsa da un’eccitazione febbrile. Tre ore, tra tende, stuoie, colazioni sull’erba, (che non si chiamava Tiffany), lenimenti, gente che si svestiva e rivestiva, si cercava, scalpitava, chiedeva.
In quella babele avevano dignità geometrica solo le code alla toilette. Ce n’erano 350 e c’era a cielo aperto, il vespasiano più lungo del mondo: sessanta metri almeno proprio sotto il ponte, che era deserto.
Era un immenso formicaio fremente. Chi si spalmava di vaselina i piedi, le cosce. Chi si fissava meticolosamente, con quattro spille, il numero da gara. Chi stipava i vestiti in borse che poi erano ammassate dentro pullman numerati, in fila infinita. Qualcuno, per proteggersi dal freddo, si copriva le spalle già nude col sacchettone scuro dell’immondizia e lo portava come fosse un abito di Armani.
In quei frangenti anche la semplice carta da giornale diventava paramento.
Stavo sognando: non avevo dubbi. Ciononostante non riuscivo a farmi travolgere dallo scorrere confuso e casuale degli eventi. Potevo a stento seguire i passi frementi di Paul che non stava più nella pelle. E quasi nemmeno dentro di me.
Nel mio vagabondare onirico, scoprivo ora, perfino, due luoghi di preghiera: per cristiani dietro alla cappella, per ebrei davanti. Sopra i muscoli evaporare di speranze, desideri, sospiri. Paul aveva il numero 1982. Era arrivato lì con due amici conosciuti sul posto, Luca e Biagio due ragazzotti calabresi desiderosi di mettersi alla prova in una corsa tanto impegnativa. Benché fossero giovani i due non sembravano essere degli sprovveduti e questo lo si poteva intuire non solo dalla prestanza fisica dei due, ma anche dalle scarpe. I due, infatti, avevano scarpe di gran classe, da maratona. Le Nike di Luca mi avevano sorriso con degnazione. Quelle di Biagio, invece, erano depresse. Da un mese mi raccontarono, non riuscivano a correre più: dopo una ventina di gare di preparazione, i tendini di Biagio avevano ceduto come corde di Stradivari forzate da una mano rude. Non sapevano se sarebbero riuscite ad arrivare in fondo. Coltivavano solo un filo di speranza.
L’approssimarsi della gara non consentiva di concentrarsi sui problemi altrui ma mentre davo un’occhiata al percorso non riuscivo a respingere dentro di me la fatidica domanda: quanto avrei retto?
Si partiva lì dove aveva inizio il ponte. Sotto di noi era il mare. “Guarda! Gli americani fanno tanto i salvatori del mondo e poi… Che schifo”! aveva tuonato la scarpa sinistra di Biagio che colto com’era aveva cominciato a raccontarmi l’origine del mare e di quello che sarebbe stato possibile fare se gli esseri umani fossero stati meno attenti al portafogli e più pronti ad ascoltare i richiami della natura. La discussione (o soliloquio come sarebbe più onesto affermare), era stata interrotta da una nevicata di vestiti che atterravano ai bordi della strada e anche sulle teste. Vecchie tute, golf sdruciti, magliette stinte, guanti e i sacchetti di Armani. Era l’inizio della cerimonia preliminare. Era l’anticipazione del colpo di cannone. L’ultimo colpo. Quello dopo di cui non si poteva più tornare indietro e alla fine del quale (n’ero certa), nessuno di noi sarebbe stato più lo stesso.
Alle 10 e 50 l’esplosione. Una scossa elettrica attraversava la folla. Poi, dopo due minuti in cui sono rimasta immobile, quasi paralizzata, prigioniera nella calca, mi sono mossa anch’io. La partenza fu simile ad un decollo vero e proprio. Il ponte s’alzò per due chilometri tra Staten Island e Brooklyn alto sopra la baia.
I piedi lo facevano vibrare come un’immensa corda musicale toccata mille e mille volte. Non vedevo il cielo: a Paul e me era toccato il numero verde e come a tutti quelli cui era toccato il numero verde era toccato il piano inferiore del ponte, mentre sopra si sentiva il tam – tam dei concorrenti rossi e blu. Eppure la vista era lo stesso mirabile. Ecco laggiù la Statua della Libertà! Ecco la foresta di vetro di Wall Street, l’Hudson, l’East River, e la baia allungata pigramente nel mattino ombroso. New York si schiudeva davanti a noi piena di promesse. Dietro sentivo ansimare”Non ce la faccio. Non aspettatemi”. Dopo dieci chilometri Biagio era ostaggio dei suoi tendini maledetti.
Volavano, invece, le Nike di Luca. Correvano forte, troppo forte. Così dopo venti minuti condotti gambe in spalla e ventre a terra nel tentativo di recuperare lo svantaggio accumulato, le ho lasciate fuggir via e le ho viste, lentamente sparire. Persa ogni speranza di vittoria finale, in accordo con le energie rimaste al mio compagno d’avventura, decisi di terminare lo stesso la gara. Forte di un’andatura meno sostenuta, cominciai a guardarmi attorno. Fu in quel momento che mi resi conto di quanto fossero fallaci i libri e la televisione. La Brooklyn che mi trovavo a percorrere non era più quella tutta verde di Walt Whitman, il poeta. Qualche angolo di strada ricordava Arsenico e vecchi merletti, il film di Frank Capra.
Amabili vecchiette allungavano le mani sopra la strada porgendo the, ma per fortuna mia e di Paul non era avvelenato.
Intanto, io e Paul continuavamo a correre. Uno spruzzo di pioggia mi aveva fatto un po’ pattinare sull’asfalto ridestandomi dalle cupe riflessioni filosofico – letterarie nelle quali mi ero addentrata quasi per nascondere la malinconia stringente che, in quel momento avvolgeva me e la mia esistenza non era comunque tempo di pensare a queste cose profonde. Vi era una corsa da portare a termine. Una corsa che si era complicata maledettamente poiché era cominciato a piovere. A piovere forte. L’acqua macerava la pelle e il cuore. Il dolore piallava infaticabile sopra la corsa. L’umidità era opprimente. Condizioni dure, durissime. A fine gara avrei scoperto l’altro volto della maratona: due morti per attacco cardiaco, dozzine di collassi, centinaia di casi di disidratazione, esaurimento, crampi. Noi invece, eravamo ancora vivi, e poi a quel punto l’avventura aveva assunto dei contorni a dir poco esilaranti.
Era quindi mio preciso dovere aiutare Paul Mc Gregor, colui il quale senza conoscermi mi aveva scelta per quest’impresa, a ritornare a casa, ad uscire da quell’inferno degli elementi che inopinatamente si era abbattuto impietoso su di noi.
Ogni chilometro un rifornimento e io (cioè noi io e Paul intendo), li avevamo fatti tutti.
Mi ero attaccata alle scarpe di una ragazza di Strasburgo, insieme abbiamo valicato il Pulaski Bridge, metà strada, per entrare nel Queens. Quelle scarpe francesi sorridevano timidamente senza parlare. Solo la fatica parlava senza tregua. Ero così stanca che cominciavo ad essere vittima d’inquietanti allucinazioni. Affioravano sogni, incubi, visioni. Sotto il Queensboro Bridge, due chilometri infernali, mi era parso di vedere il Pequod, la baleniera del Capitano Achab. Ma Moby Dick non era laggiù, nell’East River. Era dietro di me, tra i tralicci d’acciaio, e stava per raggiungermi.
Ma fu un momento, perché ecco lì dietro l’angolo Manhattan, fiorita di grattacieli, era la salvezza. Così mi ero buttata giù a rotta di collo, fuggendo e all’uscita del ponte, avevo tamponato una scarpa messicana, che com’era lecito attendersi, aveva reagito col furore del gallo da combattimento. La voglia di arrivare era tanta, troppa, figuriamoci se avrebbe potuto fermarmi un messicano qualsiasi. Non ebbi nemmeno il tempo di pensarci perché subito c’era la famigerata First Avenue. Un rettilineo di quattro chilometri: micidiale. Un vero labirinto. Correvi ed eri sempre nello stesso punto.
In quel momento mi ricordai che Paul aveva nel taschino venti dollari utili per il taxi in caso di ritiro. In quel momento pregai con tutte le mie forze Paul di fermarsi. Dopo 32 chilometri di corsa la prima resa. Lo confesso, non ce la facevo proprio più. Ormai da diversi chilometri andavo solo con la forza della disperazione e lì a dieci chilometri dall’arrivo ebbi un crollo. Mi sono messa a camminare. “Au revoir” mi sussurrarono le scarpe francesi. Non le ho riviste più. Ma mi svegliai. Quel saluto così irridente nei confronti miei e del mio compagno mi suscitarono dentro una rabbia che sfogai tutta nella discesa del ponte che porta nel Bronx dove mi rilancia. Mi dicevo cercando forza nell’autosuggestione: ”SCAPPIAMO VELOCI DA QUESTO QUARTIERE maledetto, anche se a dire il vero non era proprio così, perché il sorriso dei bimbi neri aveva la bellezza delle aiuole in fiore.
Siamo arrivati a Harlem a ritmo sincopato. Non so come stesse Paul, in quali condizioni fosse. Io personalmente, non coglievo più l’armonia delle band che facevano chiasso lungo la strada. Percepivo solo, col grido immenso della folla, un gigantesco, elementare, monosillabo “Vai! Vai!”
Ed alla fine ecco laggiù, inaspettato, seducente come un miraggio Central Park!
C’erano ancora quattro chilometri. Eppure il dolore, magicamente, tramutava in estasi. Ecco l’edificio del Guggenheim Museum di Frank Lyod Wright. Ecco il Metropolitan. Era come se, lungo la strada, ci fossero Le donne al bagno di Gauguin.
Come se perfino i Giocatori di carte di Cezanne, così assorti, per noi avessero sospeso la loro eterna partita. Qualcosa stava per sfuggirmi di mano, questa fastidiosa sensazione di sorpresa e d’impotenza insieme, si fece più netta, quando m’imbattei nell’obelisco di Cleopatra. Avrei potuto fare di tutto e di più se non fosse che un impedimento più subdolo di qualsiasi altro mi riportò all’umana e miseranda realtà. Era una voce. Umana anch’essa. La voce di chi mi vuole bene. La voce per cui sopporto la durezza del vivere e con cui deciderò dove andare una volta che tutto sarà compiuto. La voce di……… non occorre sappiate chi sia. Sappiate solo che strillò. Strillò tanto forte che svegliarmi fu un attimo. Non ricordo bene cosa mi disse. Qualcosa tipo: “Ma che sei in trance? Svegliati! Stai sognando!
Certo. Sì è vero: avevo sognato. Ed era stato un bellissimo sogno. Un’esperienza bellissima.
Ma adesso era venuto il momento di tornare a lavorare. Però quel sogno a distanza di anni mi ha lasciato una curiosità, un dubbio inevaso.
Allora voi gabbiani che avete le ali, volate fino a New York. E ditemi se, al Central Park l’obelisco di Cleopatra c’è per davvero

Dedicato a tutti quelli che sanno ancora sognare e guardare oltre le apparenze di un piede sinistro che non può volare. Ma a quello d’altra parte ci pensano i gabbiani.

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