Ieri in tv ho visto una “quasi partita” di calcio.
A contendersi i fatidici tre punti erano l’Italia e l’Estonia. Non c’è stata storia. Dopo mezz’ora sapevo già come sarebbe andata a finire.
Troppo forte l’Italia alla catalana proposta da Cesare Prandelli contro un avversario fin troppo modesto.
Così dopo qualche minuto trascorso a sognare quanti gol Andrea Pirlo farà marcare agli attaccanti della Juventus con la tranquillità del tifoso soddisfatto cambio canale.
Click. Sono fortunato. Becco un match di quasi pugilato.
Non era una rissa stile peggiori bar di Caracas. Nessuna signorina seminuda a passare col cartello tra un’inquadratura e l’altra.
Non c’erano Mike Tyson ed Evander Holyfield a contendersi un titolo mondiale.
C’erano lo spettinato e friabile avvocato Biscotti e lo spesso Sottile a scannarsi per impedirsi a vicenda d’inzuppare il pavesino nella solita minestra riscaldata dal sangue di un atroce ed assurdo delitto.
Quello d’Avetrana ovvio e dei suoi contraddittori protagonisti.
Al centro dell’infuocato dibattito l’opportunità più o meno lecita da parte del fotogenico giornalista, di mandare in onda un’intervista di “zio Michè”, a poche ore dalla sua scarcerazione effettuata da una solerte e rapace collega.
Il contributo parte ed immancabile giunge la protesta del suscettibile uomo di legge il quale come fosse un consumato tronista minaccia di alzarsi e andarsene.
Confesso: l’avrei fatto anch’io.
Bisogna reagire alla costante spettacolarizzazione delle nostre vite.
Ormai ogni aspetto della nostra vita, infatti, è diventato un motivo di godimento collettivo.
Dal battesimo al funerale tutto è ormai un’occasione da filmare e fotografare.
Non ci sarebbe nulla di male forse, se non fosse che le famiglie applicano a queste cose i loro personalissimi certificati di garanzia e rovinano tutto.
Il carrozzone di celluloide e cartapesta che le famiglie allestiscono in queste occasioni è allucinante.
Preparativi organizzati mesi prima, accordi segreti, diversivi sparsi in tutta casa e una silenziosa tensione caratterizza ogni nostro passo fino al giorno fissato dello show ed ecco comunioni trasformarsi in mini matrimoni cresime in assunzioni al cielo, lauree in adunate oceaniche.
Sembra incredibile, ma è così.
In tempi densi d’autenticità artificiale consumati in spazi assolutamente impersonali la regola è questa per cui che senso ha protestare?
La confessione in diretta televisiva è ormai uno status dell’uomo moderno.
I messaggi inviati dalla tv in questo senso, sono unilaterali e non ammettono correzioni.
Sembra, infatti, che la nostra esistenza sia diventata una lunga sosta in sala trucco in attesa che qualcuno ci chiami a comparire davanti ad una telecamera.
E’ poco importa se sia quella del nostro vicino di casa o di un perfetto sconosciuto.
Ormai alcune telecamere sono più autonome dei loro padroni e un pubblico cui mostrare le loro prodezze questi provetti cineasti lo troveranno sempre. E se i parenti e gli amici non le vorranno vedere (e di solito è così), ci saranno sempre Matrix e Quarto Grado ad attenderli.
La ricetta è semplice: un po’ di sangue, dei vestiti strappati, un testimone oculare è il gioco è fatto.
Tanto non è il fatto in sé a colpirci, ma le facce dei protagonisti che sembrano al solito distanti anni luce da ciò che hanno commesso.
Il modello americano ha trionfato anche qui e non servivano dieci edizioni del GF né i camaleontici mostri d’Avetrana e Torre Annunziata per ricordarci che ormai siamo diventati i coreografi di noi stessi.
La nostra vita non è propriamente nostra: è modellata sempre e solo su quella di un altro che magari non conosciamo, abbiamo solo intravisto e comunque senza sapere bene perché invidiamo.
Nei matrimoni le bambine che accompagnano la sposa sembrano consorti.
I funerali finiscono sempre con la musica e gli applausi (ma meno lagne e qualche stretta di mano in più in vita non bastava?), i ragazzini nei campetti mentre giocano scimmiottano i gesti dei loro campioni preferiti (ricordate l’esultanza di Fabrizio Ravanelli ad ogni gol?).
E’ inutile scandalizzarsi borbottare e dire dove siamo finiti. Perché dovunque siamo finiti ci siamo già finiti.
Dovremmo provare a ricominciare piuttosto. Ma ormai temo, ci abbiano già sfumato
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