Se qualcosa doveva insegnarmi il mio oggetto di tesi è questo: la morte è
una fascinazione cui la letteratura italiana ha ceduto a fatica, spesso
triste corollario di vite brevi e oppresse da malattie fulminanti come
quelle degli scapigliati e trascurate presto per gli usci
tranquillizzanti e soporiferi di un pacifico tinello casalingo e
ciarliero all’interno del quale scogliere con serenità i nodi di una
quotidianità difficile e complicata.
La morte paralizza.
Noi non sappiamo accoglierla come gli indiani, non sappiamo riviverla
come gli ebrei, non riusciamo a riderne come gli inglesi, non abbiamo
imparato ad allontanarla e digerirla come gli americani che, cono in
testa e zucche illuminate fuori, fanno scorpacciate di dolcetti ogni 31
ottobre.
Noi temiamo la morte con un’apprensione formidabile: non ne parliamo e non sappiamo confortare chi ne è colpito.
I nostri morti sono figure distanti.
Ai bimbi s’insegna a dimenticarli: quasi fossero fantasmi in grado di turbarne i sogni.
Che una nazione presuntuosamente cattolica s’atteggi in questo modo è paradossale se non tristissimo.
Eppure vi è stato un tempo e uno spazio dove non era così.
In campagne festose e ancora vergini dal peccato di una forzata
industrializzazione, così come c’erano i vivi si contemplavano anche i
morti sublimati in fotografie e ricordi scambiati amorevolmente attorno
alle braci di un fuoco scoppiettante e intimista.
Oggi che abbiamo perso le parole restano i cimiteri. Monumenti
angosciosi e funerei spie tangibili e ricorrenti di un’inclinazione alla
tristezza inevitabile e impellente.
Una volta vidi un gruppo di persone mangiare tortellini in brodo dopo un
funerale e vomitai inorridito. Mi sembrava una lampante ed
inaccettabile mancanza di rispetto.
Poi capì: la mancanza di rispetto era la mia. La loro era allegria trasudante rispetto.
Può cambiare questa ragazza ultracentenaria sbarazzina e modaiola?
Forse sì, forse no, chi può dirlo.
Ci vorrà in ogni modo un sacco di tempo.
Basterebbe ricordare però che i morti non vogliono atterrirci: ma possono risollevarci.
Basterebbe ricordare che ciò che siamo stati e in qualche modo ciò che
siamo ancora è merito di chi c’era, di chi c’è, di chi ci sarà.
Muore davvero solo chi dimentichiamo. Gli altri sono ancora qui, ancora
in grado di darci tacitamente una mano, oppure una pagina letta non solo
per meri scopi scolastici né tantomeno per obblighi di tesi.
Che magari non sarà un librone. Ma neanche un libello.
Io faccio parte della corrente di pensiero pro morte, sempre se esiste, e più o meno celatamente fremo dalla voglia di "morire".
RispondiEliminaIl dispiacersi per la morte di qualcuno, sebbene sia normale, è egoista: chi è morto è libero, non dovremmo essere tristi per lui, noi siamo tristi per noi stessi e al contempo desiderosi di essere al posto di chi se n'è finalmente andato; egoisti ed invidiosi.
Auguri per la tesi :)
Condivido Ilia!
RispondiEliminaNoi abbiamo al tendenza ad intristirci e a rammaricarci senza considerare la profondità di campo che una buona morte può regalarci...
Un forte abbraccio...e grazie...