giovedì 1 novembre 2012

La morte e gli italiani

Se qualcosa doveva insegnarmi il mio oggetto di tesi è questo: la morte è una fascinazione cui la letteratura italiana ha ceduto a fatica, spesso triste corollario di vite brevi e oppresse da malattie fulminanti come quelle degli scapigliati e trascurate presto per gli usci tranquillizzanti e soporiferi di un pacifico tinello casalingo e ciarliero all’interno del quale scogliere con serenità i nodi di una quotidianità difficile e complicata.
La morte paralizza.
Noi non sappiamo accoglierla come gli indiani, non sappiamo riviverla come gli ebrei, non riusciamo a riderne come gli inglesi, non abbiamo imparato ad allontanarla e digerirla come gli americani che, cono in testa e zucche illuminate fuori, fanno scorpacciate di dolcetti ogni 31 ottobre.
Noi temiamo la morte con un’apprensione formidabile: non ne parliamo e non sappiamo confortare chi ne è colpito.
I nostri morti sono figure distanti.
Ai bimbi s’insegna a dimenticarli: quasi fossero fantasmi in grado di turbarne i sogni.
Che una nazione presuntuosamente cattolica s’atteggi in questo modo è paradossale se non tristissimo.
Eppure vi è stato un tempo e uno spazio dove non era così.
In campagne festose e ancora vergini dal peccato di una forzata industrializzazione, così come c’erano i vivi si contemplavano anche i morti sublimati in fotografie e ricordi scambiati amorevolmente attorno alle braci di un fuoco scoppiettante e intimista.
Oggi che abbiamo perso le parole restano i cimiteri. Monumenti angosciosi e funerei spie tangibili e ricorrenti di un’inclinazione alla tristezza inevitabile e impellente.
Una volta vidi un gruppo di persone mangiare tortellini in brodo dopo un funerale e vomitai inorridito. Mi sembrava una lampante ed inaccettabile mancanza di rispetto.
Poi capì: la mancanza di rispetto era la mia. La loro era allegria trasudante rispetto.
Può cambiare questa ragazza ultracentenaria sbarazzina e modaiola?
Forse sì, forse no, chi può dirlo.
Ci vorrà in ogni modo un sacco di tempo.
Basterebbe ricordare però che i morti non vogliono atterrirci: ma possono risollevarci.
Basterebbe ricordare che ciò che siamo stati e in qualche modo ciò che siamo ancora è merito di chi c’era, di chi c’è, di chi ci sarà.
Muore davvero solo chi dimentichiamo. Gli altri sono ancora qui, ancora in grado di darci tacitamente una mano, oppure una pagina letta non solo per meri scopi scolastici né tantomeno per obblighi di tesi.
Che magari non sarà un librone. Ma neanche un libello.

2 commenti:

  1. Io faccio parte della corrente di pensiero pro morte, sempre se esiste, e più o meno celatamente fremo dalla voglia di "morire".
    Il dispiacersi per la morte di qualcuno, sebbene sia normale, è egoista: chi è morto è libero, non dovremmo essere tristi per lui, noi siamo tristi per noi stessi e al contempo desiderosi di essere al posto di chi se n'è finalmente andato; egoisti ed invidiosi.

    Auguri per la tesi :)

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  2. Condivido Ilia!
    Noi abbiamo al tendenza ad intristirci e a rammaricarci senza considerare la profondità di campo che una buona morte può regalarci...
    Un forte abbraccio...e grazie...

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