Paura.
Panico. Prudenza.
Quanto
basta a far restare tutto com’è nel peggiore dei mondi possibili incuranti del
tempo che passa e pure a fatica, qualcosa di nuovo propone soffocato
oltremisura dai tempi stretti e ferrigni di un copione serrato e dovuto.
Troppa
l’ angoscia e lo sgomento di una parola
propiziante altre strade, in grado di derapare convinta, dal testo scritto di
una gorgheggiata funzione.
Tutto
è andato come doveva andare, quindi in
questo primo veglione di Sanremo ancorato a stereotipi antichi ma sempre utili
quando c’è da sbrogliare l’orizzonte dall’ ignoto.
Con
l’unica amara anomalia , di giovani talenti abbigliati da vetuste laringi a
fine corsa (Fragola) e vecchi dal pelo grigio a pietire sul palco una soverchia
amnistia musicale rimembrando primi
amori (Ruggeri), furbescamente progressive
– punk e lamentando inappropriati settaggi a mascherare evidenti
dissesti (Stadio, Curreri).
Storture
alimentanti il paradosso e l’impostura di note stagnanti nonostante i
progressi, la ripresa, il futuro annunciato dai governanti e rappresentato sul
palco da uno yo –yo sorridente (Rocco Hunt),e tatuaggi cuciti su salme
gravanti muffa (il duo Iurato – Caccamo).
Tanta
quanta c’è ne deve essere nella borsa di Noemi abbastanza distratta in fondo,
dentro i Dear Jack senza il loro vecchio leader indifferenti e indifferibili;
sparso nei Bluvertigo spersi attorno alle lune sfiatate di Morgan che a un
certo punto si sbarazza della chitarra come qualche minuto prima ci aveva
privato della voce. Peccato. Una volta erano bravi . Vinceranno il premio della
critica scontando il dazio di un passato controverso e una reunion ambigua e
presuntuosa come Irene Fornaciari scaltra
nella scelta del tema della sua canzone meno nello svolgimento furbo ma inascoltabile
e meritatamente a rischio soppressione.
Mai
quanto l’avrebbe meritata l’attesa e pompatissima Laura Pausini tanto brava ad
incensarsi quanto ad esaurirsi in un medley stucchevole ascrivibile al pianeta
evitabile. Defunto Volponi ci voleva un drago a riabilitare il tutto e
rimetterlo integro nell’astro del vedibile.
Provvidenziale
a tal proposito, un monumentale Elton Jhonn che da vero kamikaze del pensiero
argomenta sull’importanza dell’amore cristiano è subito scaccola duro sul
destino inerte del Festival immolato ad una bellezza muta(Ghenea), e cartonata (Garko)
totalmente al servizio di un teatrino mesto, pavido e funerario dove un vecchio
prossimo al centenario ad un certo punto aveva cominciato ad elencare il
segreto dell’eterna giovinezza. Quello scontato di Conti non l’ha lasciato
finire. Peccato. Sarebbe servito ad uscire dall’agonia di questo vecchio
scarpone incidente incubi .
Sul
palco i fiori di Sanremo. Crisantemi su un cielo di memorie ciclicamente riciclate
al servizio di un ansimante babele di
suoni di cui Conti, Garko Ghenea , Raffaele son solo gli annuali, cortesi,
bellissimi mercanti e Aldo Giovanni e Giacomo non fanno più ridere Maitre Gims
sembra un dannato fenomeno e la coppia Foglietta-
Smutniak son più fighe di una Ghenea bella ma vestita e una Raffaele
intelligente e
ripetitiva .
E
le canzoni ? Un trascurabile trambusto in cui cercando la voce perfetta si ode soltanto
il tonfo molesto della caducità.
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