mercoledì 10 febbraio 2016

La prima serata del Festival di Sanremo e il tonfo molesto della caducità

Paura. Panico. Prudenza.
Quanto basta a far restare tutto com’è nel peggiore dei mondi possibili incuranti del tempo che passa e pure a fatica, qualcosa di nuovo propone soffocato oltremisura dai tempi stretti e ferrigni di un copione serrato e dovuto.
Troppa  l’ angoscia e lo sgomento di una parola propiziante altre strade, in grado di derapare convinta, dal testo scritto di una gorgheggiata funzione.
Tutto è andato come doveva andare,  quindi in questo primo veglione di Sanremo ancorato a stereotipi antichi ma sempre utili quando c’è da sbrogliare l’orizzonte dall’ ignoto.
Con l’unica amara anomalia , di giovani talenti abbigliati da vetuste laringi a fine corsa (Fragola) e vecchi dal pelo grigio a pietire sul palco una soverchia amnistia musicale  rimembrando primi amori (Ruggeri), furbescamente progressive – punk  e lamentando  inappropriati settaggi a mascherare evidenti dissesti (Stadio, Curreri).
Storture alimentanti il paradosso e l’impostura di note stagnanti nonostante i progressi, la ripresa, il futuro annunciato dai governanti e rappresentato sul palco  da uno yo –yo sorridente  (Rocco Hunt),e tatuaggi cuciti su salme gravanti muffa (il duo Iurato – Caccamo).
Tanta quanta c’è ne deve essere nella borsa di Noemi abbastanza distratta in fondo, dentro i Dear Jack senza il loro vecchio leader indifferenti e indifferibili; sparso nei Bluvertigo spersi attorno alle lune sfiatate di Morgan che a un certo punto si sbarazza della chitarra come qualche minuto prima ci aveva privato della voce. Peccato. Una volta erano bravi . Vinceranno il premio della critica scontando il dazio di un passato controverso e una reunion ambigua e presuntuosa  come Irene Fornaciari scaltra nella scelta del tema della sua canzone  meno nello svolgimento furbo ma inascoltabile e meritatamente a rischio soppressione.
Mai quanto l’avrebbe meritata l’attesa e pompatissima Laura Pausini tanto brava ad incensarsi quanto ad esaurirsi in un medley stucchevole ascrivibile al pianeta evitabile. Defunto Volponi ci voleva un drago a riabilitare il tutto e rimetterlo integro nell’astro del vedibile.
Provvidenziale a tal proposito, un monumentale Elton Jhonn che da vero kamikaze del pensiero argomenta sull’importanza dell’amore cristiano è subito scaccola duro sul destino inerte del Festival immolato ad una bellezza muta(Ghenea), e cartonata (Garko) totalmente al servizio di un teatrino mesto, pavido e funerario dove un vecchio prossimo al centenario ad un certo punto aveva cominciato ad elencare il segreto dell’eterna giovinezza. Quello scontato di Conti non l’ha lasciato finire. Peccato. Sarebbe servito ad uscire dall’agonia di questo vecchio scarpone incidente incubi .
Sul palco i fiori di Sanremo. Crisantemi su un cielo di memorie ciclicamente riciclate al servizio di un ansimante babele  di suoni di cui Conti, Garko Ghenea , Raffaele son solo gli annuali, cortesi, bellissimi mercanti e Aldo Giovanni e Giacomo non fanno più ridere Maitre Gims sembra un dannato  fenomeno e la coppia Foglietta-  Smutniak son più fighe di una Ghenea bella ma vestita e una Raffaele intelligente e
 ripetitiva .  

E le canzoni ?  Un trascurabile trambusto  in cui cercando la voce perfetta si ode soltanto il tonfo molesto della caducità.

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