mercoledì 23 maggio 2018

Quel che ho imparato il 23 maggio 1992

Il 23 maggio 1992 avevo 10 anni un sacco di capelli in testa, delle gambe bellissime e con Careca finii il mio secondo album Calciatori Panini. Era sabato.
 Quel giorno, imparai che per amor di Verità e Giustizia si può anche morire.
La lezione più autentica e vera però la ricevetti dopo, il giorno dei funerali.
Ad impartirmela fu Rosaria Schifani la moglie dell'agente Vito che morì assieme al resto della scorta di Giovanni Falcone nell'attentato del 23 maggio 1992.
Il suo pianto, quelle lacrime, sottolineano ancora oggi  a cuore vivo,  che neppure la folgore delle mafie e le complicità inconfessabili con brandelli di Stato possono annientare la volontà delle persone oneste, le quali a testa alta sanno morire ma anche risollevarsi dopo l'abisso del lutto.
Oggi, per l'appunto, Rosaria Schifani non è una donna sconfitta. Dopo la scomparsa del marito è riuscita a ricostruirsi una vita, una famiglia, all'interno della quale c'è il figlio suo e di Vito che ha vent'anni e studia all'accademia della guardia di finanza.
Una storia tragica e paradossalmente bella, dunque, con connotati quasi religiosi, tanta è la fede con cui Rosaria ha continuato il suo cammino dopo la frase che pronunciò in chiesa a ridosso dell'attentato; quel «Io vi perdono, ma vi dovete mettere in ginocchio» che fa ormai parte del nostro calvario storico e della marcia verso una democrazia mai abbastanza compiuta.
E proprio da lì, da quella chiesa carica di lacrime e gente che celebrò i morti di mafia del '92, dovremmo ripartire  per cercare di accorciare le distanze da una tragedia che non può essere trattata solo  come storia marchiata da un insufficiente e odioso “è accaduto”.
Ha scalciato, Rosaria, fisicamente, e inveito contro i bastardi mafiosi che le hanno mutilato l'esistenza, punendo a morte un agente che -ha ripetuto più volte lei, negli anni, quasi il destino potesse ancora essere modificato- quel giorno non doveva prestare servizio, e solo per caso è accorso con i compagni di lavoro a scortare Falcone e la moglie Francesca Morvillo.
Lo stesso cumulo di dolore, e indisponibilità alla resa dovrebbe emergere anche dagli altri luoghi di questa storia sia nel punto dove saltò per aria l'auto di Falcone, sia nella caserma dove lavorava il marito, sia nel palazzo di giustizia di Palermo.
Lì, infatti, si trovava la camera ardente che ha accolto Vito Schifani. E sempre lì, vent'anni fa, la vedova Schifani chiese al giudice Paolo Borsellino -anch'egli poi trucidato da Cosa Nostra-: «Ma chi sono questi mafiosi? Hanno la faccia sporca come li ritraggono di solito?».
«No», rispose lui, «il mafioso ha l'aspetto pulito, è difficile riconoscerlo». Al che lei: «Quindi ci sono anche qui?», e intendeva dire «sono anche qui, proprio qui, nella camera ardente?». «Certo», rispose Borsellino, «di solito chi ammazza sta dietro al feretro».
Ora, accostando a queste parole il fatto che, due decenni dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, ancora non è stata individuata la verità, e l'identità di chi ha voluto quella scia di sangue, viene da porsi un dubbio:
“Chi ha vinto”?  O sarebbe più giusto ammettere «Abbiamo perso tutti»?
Soltanto la giustizia, quella che ancora resiste, può aiutarci a trovare la risposta.
Talvolta l’abbiamo chiamata sogno, qualche altra utopia, oppure, scoraggiati, abbiamo finito col chiamarla illusione.
Da funamboli della parola scritta ci siamo alati definendola castello in aria e ci hanno pisciato sopra con tanto di compianto, bistrattato monumento.
Ma è soltanto la vita che creiamo il fiore della speranza.  Quello da cui ripartire. Anche dopo, quando tutto sembra finito, la distanza tanta e la disperazione troppa.
Insieme a Rosaria e tutti quelli che sanno e respirano di libertà.
La voce della libertà non tace: si risolleva e grida più forte.
Non può tacere se il fumo la soffoca o se esplosioni le spezzano il fiato, non può sotto la polvere restare in silenzio, non è muta tra fiamme e macerie.
Questa è la differenza che i vili mai riusciranno a capire.

Questo ho imparato da Giovanni Falcone, sua moglie,e la sua scorta ventisei anni dopo. Non è poco e li ringrazio. Con la mano sul petto e una ferita nel cuore. Ancora aperta. Sempre.

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