Di Fabrizio De Andrè è stato detto di tutto e di più anche da quelle persone che non hanno mai ascoltato una sua canzone ma che per uno strano “dovere” (culturale? sociale?) sono costrette a postare su facebook video dei suoi successi.
Caposaldo della canzone d’autore italiana, profondamente influenzato da Bob Dylan e Leonard Cohen oltre che dagli chansonnier francesi ( George Brassens su tutti ), De Andrè è stato tra i primi a infrangere i dogmi della "canzonetta" italiana con le sue ballate cupe, affollate di anime perse, emarginati e derelitti d'ogni angolo del mondo: drogati, prostitute, omosessuali,suicidi,alcolisti, matti, pedofili,assassini, zingari.
Di spirito anarchico ,De Andrè vedeva nel nomadismo una fuga dall’angoscia , una dromomania, un camminare senza meta che conduce alla libertà individuale.
“Khorakhané ( a forza di essere vento)” , seconda traccia di “Anime Salve” , descrive proprio il viaggio verso la libertà di uno zingaro, un viaggio senza meta.
I Khorakhané - tribù rom di provenienza serbo-montenegrina il cui nome significa “lettori di Corano[1]”- per Fabrizio De Andrè «Sarebbero un popolo da insignire con il Nobel per la pace per il solo fatto di girare per il mondo senza armi da oltre 2000 anni» [2].
Nella canzone, i Rom vengono rappresentati come individui senza una vera casa e per questo assolutamente liberi e privi di condizionamenti economico-sociali ( De Andrè sembra raccogliere l’eredità di Claudio Lolli e dei suoi zingari felici….) ; il viaggio degli zingari non ha una meta, anzi, gli zingari non si preoccupano neanche di averne una. Sono come il vento, un vento che dall’India settentrionale – loro paese d’origine – si abbatte sull’Europa portando con sé un bagaglio di tradizioni e cultura.
L’ eterno peregrinare intorno al mondo non ha uno scopo, ma fa parte del loro DNA (per un solo dolcissimo umore del sangue/ per la stessa ragione del viaggio viaggiare). Da qui il cantautore prende lo spunto per lanciare una critica ai benpensanti ed esprimere il suo disprezzo nei confronti dei conformisti (…e se questo vuol dire rubare…/ lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca/ il punto di vista di Dio) ; non mancano in questa canzone struggente i toni amari( i figli cadevano dal calendario/ Yugoslavia Polonia Ungheria/ i soldati prendevano tutti/ e tutti buttavano via).
Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria. In tutto il mondo ci saranno manifestazioni per ricordare i milioni di ebrei trucidati nei campi di sterminio nazifascista. Si parlerà essenzialmente degli ebrei. Le cifre hanno un peso e sono terrificanti. Sei milioni di persone, donne, uomini, bambini, vecchi, ammalati, disabili, furono tutti condotti nelle camere a gas ed assassinati. Ma all’interno della memoria sull’olocausto c’è un’altra memoria dimenticata. Come una grande matrioska, in ogni bambola che si apre se ne trova un’altra. Una piccola memoria riguarda gli omosessuali, i dissidenti politici dell’epoca (comunisti, socialisti ,anarchici). Una memoria che bene o male viene ricordata in più occasioni dalle organizzazioni politiche ancora esistenti. Ma alla fine di tutte le memorie, nell’ultima bambolina, se ne trova una dimenticata da tutti: l’olocausto degli zingari, il Porrajmos.
Un milione e mezzo di vittime dovute alle operazioni barbariche dei “ medici “ nazisti : sterilizzazione, inoculazione di germi e virus patogeni, mutilazioni.[3]
Anche gli zingari come gli ebrei, sono stati massacrati sulla base delle teorie naziste e a ricordarci il loro dolore ci pensa Giorgio Bezzecchi, "rom harvato" (croato), che ha scritto i versi finali della canzone in lingua “romanes”. Un dolce lamento avvolge l’ascoltatore e lo trascina come una foglia morta ( rammentate Verlaine?)[4], è un vento che scuote anche gli animi più duri.
A forza di essere vento, si diventa zingari e si cerca la libertà – del corpo,di pensiero,di parola,- perché è l’unica cosa che oggi conta.
De Andrè la libertà l’aveva perduta per quattro lunghi mesi quando insieme alla moglie, Dori Ghezzi, venne rapito dall’anonima sarda sulle montagne della Gallura; intervistato all’indomani della liberazione, ebbe parole di pietà per i suoi carcerieri: « noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai»[5].
Da questa esperienza nascerà nel 1981 un album intenso, forte come la Sardegna e i suoi abitanti, anonimo come i suoi rapitori : “ L’ indiano”.[6]
L’album,scritto in collaborazione con Massimo Bubola, è un insieme di blues[7], canti tradizionali sardi[8], canzoni d’amore[9] e canzoni che parlano della guerra e dei suoi effetti disastrosi.
“Fiume Sand Creek” è un lungo flashback doloroso sul massacro – reale e documentato- di un villaggio pellerossa di etnia Cheyenne e Arapaho da parte del colonnello John Chivington avvenuto il 29 novembre 1864.
Quella che all’inizio sembrava una vittoria contro un nemico più grande da sconfiggere (sembra quasi anticipare il conflitto in Iraq…) si rivelò poi presso il popolo americano per quello che era: uno sterminio di donne, bambini,anziani.
La canzone di De Andrè ci fa avvertire il senso di paura, di smarrimento fin dai primi versi – brevi ma ricchi di metafore – e per capirli dobbiamo entrare nella testa del protagonista, un ragazzo, nell’attimo prima della sua morte.
De Andrè con questa canzone si dimostra non solo un appassionato difensore delle minoranze etniche(nel 1992, anno delle “Colombiane”, rifiuta di esibirsi a Genova insieme a Bob Dylan per difendere la causa dei nativi americani ) ma come un bravo regista ci porta sul campo di battaglia insieme ai carnefici,alle giacche blu, insieme al quel generale di vent’anni – che in realtà era un colonnello e di anni ne aveva quarantatrè - ci fa vedere la disperazione, il sangue che macchia la neve (quando l'albero della neve/fiorì di stelle rosse…), l’incredulità del ragazzo che chiede spiegazioni al nonno (chiusi gli occhi per tre volte mi ritrovai ancora li / chiesi a mio nonno è solo un sogno e mio nonno disse sì ) e un momento dopo viene ucciso (sognai talmente forte/che mi usci il sangue dal naso).
L’ultimo atto di questo sanguinoso scontro,quando tutto ormai tace (quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte /c'erano solo cani e fumo e tende capovolte) ci porta sul letto del fiume Sand Creek ormai ricoperto di cadaveri di bambini (ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek )e sembra quasi di sentirne le voci e le grida.
Duecento indiani vengono massacrati e il Governo degli Stati Uniti farà le sue scuse solo nel Duemila.
Duecento indiani vengono sterminati per il solo fatto di abitare una terra –quella parte del West compresa tra Kansas, Oklahoma e Colorado - che da sempre consideravano la loro.
Duecento indiani vengono trucidati perché davano fastidio ai cercatori d’oro.
Duecento indiani sono morti, non per un dio ma nemmeno per gioco.
Nessun commento:
Posta un commento