Cipriano
in realtà si chiamava Ciprian. Ma da quando era in Italia s’era abituato a farsi chiamare
così. Per comodità e chiarezza. Ormai si era abituato a tante cose. Si era abituato
a non pensare al futuro. Si era abituato a chiamare casa un posto in cui qualsiasi
altro uomo si sarebbe vergognato di accogliere amici e parenti. Si era abituato a uno sguardo freddo, quando
il suo accento tradiva il suo non essere “di qua” come gli facevano sempre
notare i suoi conoscenti quando diventavano Mosè e volevano ornare le acque del
loro lurido stagno.
Si era persino dimenticata la laurea a pieni voti che aveva preso da ragazzo. Non gli serviva lì. Gli serviva un lavoro e ne aveva trovati tanti. Tanti lavori che tutti assieme non ne facevano uno effettivo. Ma bastavano per noleggiare una carretta per tornare a casa d’estate e sembrare un vincente, uno che ce l’aveva fatta.
Ciprian si era abituato a farsi andare bene le domeniche con pane e olio in bocca e la tv con il digitale terreste integrato. Così senza pensare troppo. Perché le melanzane della D’Urso facevano comunque una discreta parmigiana sul tavolo deserto della cucina.
Da qualche tempo gli avevano presentato pure una donna di nome Anica. Tra di loro parlavano un italiano esilarante. Ma era una delle poche cose che avevano in comune. A parte la solitudine. Quella, faceva capolino sempre.
Intanto che installava una tenda da sole, a casa d’italiani TUTTI INTERISTI (come dichiarava fiero il gagliardetto appeso sulla parete del camino), di quelli che volevano risparmiare l’IVA sui lavori, pensava a lei. Cercava di capire cosa sentisse per lei.
Intanto lisciava, isolava, incamerava autostima. Perché Ciprian era bravo davvero in quel lavoro.
Usava il silicone spray. Lo vedeva uscire come schiuma quasi liquida dalla bomboletta. Sentiva il solvente evaporare presto e la schiuma rafforzare. Indurirsi. Fare il suo lavoro. Riguardava quel lavoro perfetto e sorrideva, sovrapponendo il pensiero sull’amore a quello sul silicone.
Andava a espandersi dove trovava un pertugio, una rottura, un vuoto. Andava lì e si assodava sereno e compatto. Sembrava perfetto. Sembrava fosse nato per stare lì. Almeno lui. Era bello per Ciprian sapere ci fosse qualcosa capace di rendere stabile quel mondo così fragile.
Poi, fiero di quel solido poema andava avanti. E pensava che sì, che bisognava crederci davvero. Che lui ci credeva davvero a questa cosa. Ciprian credeva davvero al potere universale del silicone.
Si era persino dimenticata la laurea a pieni voti che aveva preso da ragazzo. Non gli serviva lì. Gli serviva un lavoro e ne aveva trovati tanti. Tanti lavori che tutti assieme non ne facevano uno effettivo. Ma bastavano per noleggiare una carretta per tornare a casa d’estate e sembrare un vincente, uno che ce l’aveva fatta.
Ciprian si era abituato a farsi andare bene le domeniche con pane e olio in bocca e la tv con il digitale terreste integrato. Così senza pensare troppo. Perché le melanzane della D’Urso facevano comunque una discreta parmigiana sul tavolo deserto della cucina.
Da qualche tempo gli avevano presentato pure una donna di nome Anica. Tra di loro parlavano un italiano esilarante. Ma era una delle poche cose che avevano in comune. A parte la solitudine. Quella, faceva capolino sempre.
Intanto che installava una tenda da sole, a casa d’italiani TUTTI INTERISTI (come dichiarava fiero il gagliardetto appeso sulla parete del camino), di quelli che volevano risparmiare l’IVA sui lavori, pensava a lei. Cercava di capire cosa sentisse per lei.
Intanto lisciava, isolava, incamerava autostima. Perché Ciprian era bravo davvero in quel lavoro.
Usava il silicone spray. Lo vedeva uscire come schiuma quasi liquida dalla bomboletta. Sentiva il solvente evaporare presto e la schiuma rafforzare. Indurirsi. Fare il suo lavoro. Riguardava quel lavoro perfetto e sorrideva, sovrapponendo il pensiero sull’amore a quello sul silicone.
Andava a espandersi dove trovava un pertugio, una rottura, un vuoto. Andava lì e si assodava sereno e compatto. Sembrava perfetto. Sembrava fosse nato per stare lì. Almeno lui. Era bello per Ciprian sapere ci fosse qualcosa capace di rendere stabile quel mondo così fragile.
Poi, fiero di quel solido poema andava avanti. E pensava che sì, che bisognava crederci davvero. Che lui ci credeva davvero a questa cosa. Ciprian credeva davvero al potere universale del silicone.
Quel
giorno, mentre aspettava il concerto del Primo Maggio, vide di
sfuggita Barbara
D’Urso mentre tentava di spiegare la nuova riforma del lavoro. A coadiuvarla in studio c’era anche il ministro
Poletti oibò. In collegamento,
facce disperate di lavoratori in protesta. La D’Urso era al top. Poletti al contrario, pareva
irretito. Ciprian a quella vista non ebbe dubbi: l’Italia era una repubblica
fondata sul silicone e Barbara D’Urso ne era la presidentessa.
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