domenica 17 maggio 2015

Rocky e Joe



Rocky e Joe usciti dalla canzone degli Oliver Onions affondavano le loro vite in un sogno più grande di loro.
La città era umida, le case avevano facce abbrunite, e la pioggia sferzava i portafogli dei loro genitori che tiravano avanti tra rinunce e paure. Ma Rocky era un fulmine sul ring e Tiberio il suo allenatore, gli stava dietro, non lo mollava, cercando di tirargli fuori quella rabbia e quella grinta che veicolata a dovere attraverso quel fisico possente e il destro micidiale avrebbero potuto far di lui un fuoriclasse del pugilato.
Si sgolava Tiberio, mostrandogli a nastro i filmati di Tyson, Mayweather, Holyfield, Pacquiao.
La boxe Rocky c’è l’aveva nel sangue. I suoi compagni invece, smemorati giorni da ammattire e vuote serate da svoltare dove non succedeva niente e spesso lo andavano a prelevare all’uscita dalla palestra e se lo portavano a cazzeggiare parlando di un possibile furto, di una rapina che avrebbe potuto cambiare la loro vita. In quel preciso momento. Istante. Attimo. Senza aspettare. Senza allenarsi. Rompersi il naso. Sfondare tirapugni. Facendo la cresta alla fretta di diventar grandi, famosi.  Rocky era combattuto.  E i combattimenti della sua anima se ne fottevano dei classici tre round. Picchiavano duro ogni momento e lui ondeggiava, sbandava, strascicava, abbassava, concedeva strizzando l’occhio a ogni tentazione.
La banda di quartiere era una stuzzicante scorciatoia per fuggire da quella tagliola catarifrangente  e respirare a pieni polmoni la vita sbottonata di chi si trascinava tronfio le ragazze a letto con uno schiocco di dita. Joe , nigliore amico di quella vena scoppiata,  era un fuoriclasse in questo e Rocky avrebbe voluto imitarlo volentieri se Tiberio non fosse stato lì a rinfocolare un sogno che la sua famiglia avrebbe spento con il cerino di un lavoro. Uno qualunque purché Rocky la smettesse di gonfiarsi i tricipiti con quella storia del pugile professionista. “Trovati un lavoro”, gli urlava il padre nelle orecchie quando usciva la mattina tutto trafelato e abbruttito da quei giorni monotoni; la madre, tra una telenovela e una visita al cimitero aveva altro cui badare, suo fratello avrebbe voluto prenderlo in nero come aiutante in galleria ma Rocky non ci stava.
Infittirsi nei liquami di un lavoro oscuro, lo vedeva come una dichiarazione di resa nei confronti dell’esistenza. Una sconfitta cocente di cui non voleva assumersi il peso. Non senza lottare, provarci almeno. Le strade erano due. O diventar pugile o appendersi al chiodo con tutta la vita appresso. Questo il bivio che le luci della sera disegnavano nella sua mente quando si svaccava sul divano di fronte all’ennesimo combattimento della sua vita.  Il DVD era di seconda mano è sembrava felice d’ospitare le gesta gloriose dei più grandi campioni del pugilato. Quel pugilato che
aveva coccolato tra le sue vigorose braccia anche il suo allenatore Tiberio. Alla canna del gas anche lui. Le ingiunzioni di pagamento sul comodino facevano a gara con le urla isteriche della moglie, a ribadirgli unanime verdetto, la sua totale  inutilità.
Una sentenza che Rocky con il suo destro micidiale avrebbe potuto rimettere in discussione e gli ultimi allenamenti avevano reso inoppugnabile.
Da un po’ di tempo, infatti, Rocky non si allenava più bene come prima. Incerto, goffo, non ci stava con la testa.
Tiberio aveva sentito strane voci su una rapina. Si chiuse con Rocky nello spogliatoio e lo fece piangere scuotendolo.
Rocky non riusciva a credere che qualcuno avesse  davvero fiducia in lui. Ma se il coach lo faceva solo per soldi? Se Tiberio voleva solo arricchirsi su di lui? Rocky glielo urlò in faccia quel pomeriggio  e per Tiberio fu un’altra sconfitta.
A sera Tiberio lasciò la palestra sigaretta tra le dita, spiazzato da quell’inaspettata resa. Si chiedeva se c’è l’avrebbe fatta Rocky.  Se quella sua disperazione avesse davvero possibilità in mezzo a quella gente dal grugno già pronto per i poster. Tiberio non rispose. Sapeva, infatti, che quell’incontro l’aveva vinto Joe con la prospettiva di guadagni facili. A suon di pugni e pallottole.
Ma il piombo non era un gancio perfetto con la vita onesta che Rocky sognava e quella mattina la mano gli tremava sincera. Una giornata uggiosa in un buco di periferia. Bel modo di pararsi il futuro.  Sarebbe bastato poco in fondo. Un colpo. Uno sparo. E la libertà lo avrebbe raggiunto portandolo in America su un yacht megagalattico. Rocky però non voleva saperne di muoversi. Freddato da una rasoiata, stramazzò al suolo mentre i suoi compagni guadagnavano la fuga verso quel nulla da cui avrebbero voluto fuggire.
Il resto furono luci caotiche, sirene, carabinieri, lacrime sul sangue di Rocky, sui suoi guantoni, su quel proiettile assassino, sulle speranze di rivincita di Tiberio, sulle urla disperate del padre, sull’apatia cimiteriale della madre, sul lavoro in nero del fratello, sulle facce paonazze, quasi nere dei lavoratori che ogni giorno  pendolavano speranza tenendo per mano figli dolci e amari, fragili e ribelli, sognatori eppure condannati all’ombra di un destino che repentino curva traverso.

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