domenica 31 maggio 2015

Anche il peggiore degli inferni soccombe



Insieme a quella malattia Antonio c’era nato.  Prima se n’era preso cura il tempo, dopo il destino. E prima di lui i suoi nonni e indietro e indietro e indietro ancora mani che non ricordava. La malattia era come ci fosse sempre stata: aveva qualcosa che la poneva al di fuori del tempo.

L’infermità divideva quella terra.
Da una parte era nido, gola, spazio, dove il popolo era libero di gridare le sue antiche litanie sorde ogni volta che voleva. In fondo gli bastava un click o l’occhio ingordo di una telecamera.
Dall’’altra era umanità rotta alla palude: essiccazione supina, briciola, inedia sopravvissuta all’ennesima stagione di stenti.

No, prima non era così. Dicevano gli anziani che un tempo quella era stata una palude industriosa, che ogni piena elettorale ridisegnava a piacimento. Apparte lui statico e indeciso.

E quella notte erano tutti lì, i medici dell’ospedale, a vegliare quell’’incertezza. E la pressione scendeva, scendeva, scendeva. Come se non dovesse mai fermarsi. Piantavano bastoncini lungo la sua pelle. Per vedere d’arrestare il collasso delle sue funzioni vitali. Spostando di ora in ora il livello della loro paura.
Sgranavano suppliche e imprecazioni allo stesso indirizzo. Non sapevano più cosa chi come.
Continuavano a piangere, continuava a scendere. Antonio fuori dalla sua prigione materiale, guardava il fiume di lacrime senza capire più se quelle lacrime che lo stavano inondando, erano proprio le lacrime di quel momento, o  fossero quelle  sgorgate nelle ore scorse o nei giorni passati nelle settimane precedenti . Quelle ombre piangevano che gli sembrava una vita. Faceva freddo di notte e anche le ossa erano bagnate. Ma di fronte a quell’’angoscia non se ne lamentava . Era l’attesa che faceva male non le ossa.

Quella malattia l’aveva sempre vista come una sponda, come parete di contenitore.
Ma adesso il pianto filtrava, penetrava, imbeveva . E non lo sapeva maledire, quel pianto, perché era lo stesso pianto che l’aveva nutrito da bambino. E adesso era un nemico che odiava e che rispettava. Quel pianto che non si faceva contenere, ma corrompeva.
Nella poca luce che scendeva, i medici fissavano lo sguardo di Antonio, appoggiandosi ai colonnati immobili. Macchie di fard ingarbugliavano il viso delle infermiere stanche.  Una di queste, Manuela, una di quelle con cui Antonio aveva più legato, teneva in mano la sua catenina d’oro come fosse un rosario blasfemo. E senza accorgersene stretti attorno al dolore, quei camici bianchi s’imprigionavano, perdendo il senso, razziando l’equilibrio che Antonio aveva loro richiesto. Lo amavano come una pietra preziosa nascosta nel buio più profondo.  Da quando lo avevano incontrato la prima volta, otto mesi prima, avevano deciso :  avrebbero fatto l’impossibile per riportarlo alla luce prima di riprendersi la loro vita di fruttuosi contrappesi.
La malattia diventa pane nella minestra quando c’è da dare un senso alla propria vita.  Diventa indefinibile apparenza capace di dare struttura al vento.

Poi i valori si stabilizzarono nella notte.  Allora fu sgomento e inconfessabile liberazione. E’ incapacità di capire le conseguenze. Sconcerto di morte e stupore di vita.
I valori si stabilizzarono e tutti seppero da quel momento esatto nulla sarebbe stato come prima.
Lo avrebbero aggiustato quel ragazzo, mettendogli nuova forza nelle gambe. E sotto i piedi terra e sopra la terra speranza, sognando avrebbe retto abbastanza perché Antonio  potesse diventare quel padre che lui non aveva mai avuto.
 Antonio, inguaribile ottimista, dal fondo della sua stanza già fantasticava. Magari si sarebbe ripreso la vita, la strada.  Scritto un racconto.

Anche lui sapeva che non sarebbe stato più come prima. Perché ora sapeva che la malattia non era invincibile.
Ora sapeva che la malattia poteva cedere. Sapeva che l’infermità capitola. E anche il peggiore degli inferni soccombe.


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