E così ci ritroviamo, in bilico sull'estate, a celebrare i trent’anni dalla strage dell’"Heysel.".
Una tragedia che tinge di nero ogni anelito ad un calcio pulito e rinsalda ogni volta i legami con l’abisso dell’incuria e l’abominio della violenza.
Ero troppo piccolo perché possa dire, di esserci stato, di averla vissuta però qualcosa in superficie resta.
Indelebile:
E, non è una tribuna traballante, un settore disgiunto a emergere indiviso.
Prevalgono, invece, i dettagli.
Indimenticabili nella storia della cronaca nostrana, resteranno gli occhi di persone riportate loro malgrado, agli albori dell’esistenza di uomini immolati al bene della famiglia e al male della società.
Potente e prepotente assieme, resterà pure la naturalezza con cui quest’ultima, ha maturato la propria violenza.
Per non parlare del dolore implicito nell'edilizia locale, o dell'ineleganza cronica in ogni abbigliamento e gesto seguente,.
Questo -e non certo la trama- è lo spettacolo che ha reso grande nella sua drammaticità l’Heysel.
Come l’assurda colonna sonora di quegli uomini in calzoncini corti che odorava d’inferno e morte, in quella notte spalancata in uno squallore immenso.
Il fatto che poi le stragi continuino, o provino a farlo, da mane a tarde, e che l'affresco complessivo puzzi pur sempre di male vite, ha un'importanza relativa.
"L’Heysel” ha istoriato il peggio del mondo come Caravaggio ha miniato il lato oscuro dell’uomo.
A pennellate abbaglianti.
Irradiando la realtà con un sapore eterno, immortale per l'esattezza con cui ha spogliato il pianeta Schifo.
Dopodiché perde all'istante senso, la polemica sugli effetti buoni o maligni che "l’Heysel " ha avuto sull’evoluzione della società civile. Qui non si tratta di esaltazione o meno di chi spara e uccide, ma di abbandono conclamato della dignità sociale.
Anche non fosse fatto di hooligan assassini, insomma, il popolo da "stadio”, sarebbe comunque dannato.
E (con)dannato, pure, alla sua bruttezza spettacolare.
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