lunedì 10 agosto 2015

Il futuro che sognava



Scendendo dall’autobus Antonio si girava per specchiarsi nei vetri scuri. La sciarpa  rossa presa il giorno prima gli stava bene: la usava un po’ come fazzoletto, un po’ come sciarpa, un po’ come turbante in memoria di quei capelli lunghissimi che ormai non c’erano più, ma una volta gli avevano fatto guadagnare l’appellativo di Sandokan. Uno dei lembi gli  cadeva in modo elegante sulla spalla lasciata scoperta da quella  camicia bianca smanicata.  Le aveva sempre odiate per via di quell’aria approssimativa e sudaticcia che trasmettevano. Ma il caldo e la voglia di non passar per lo schizzinoso di turno, quella volta  non avevano concesso riserve. Più sotto un paio di pantaloni larghi e ancora più sotto le scarpe da ginnastica impolverate.
Forse prima di partire avrebbe dovuto prenderne un paio nuovo, ma dopo averci pensato un po’, decise di indossarle lo stesso.  In fondo, quei pezzi da museo ai piedi s’intonavano bene a quella vecchiaia che gli stagnava dentro e gli impediva d’aprirsi davvero al nuovo.
Tutto in lui era ormai  una ragnatela. Da due anni la trama della sua vita s’era interrotta facendolo scivolare ai margini dell’esistenza .  Ora che era lì si sentiva quasi un intruso con quella sabbia, con quella storia. Ma Antonio  tentava di non pensarci.
Pensava invece, a quando aveva consultato le guide e si era immaginato un caldo più irritante. Caldo era caldo, ma senza la prevista umidità, la situazione era anche tollerabile. Il vento invece non c’èra. E lui lo aveva visto, su quelle foto prive di vegetazione. Doveva esserci ma quella volta non s’èra fatto vedere.
Antonio guardava quelle costruzioni, sterrate nella pietra ed era felice che lo facessero  sentire così piccolo. Lui che piccolo lo era davvero e più di tanto in altezza non era cresciuto.
Tutta quella  storia, tutti quei  secoli, tutto quel  lavoro di anni e di uomini davanti a lui. Per lui. Era quello il posto che serviva per fare un po’ di chiarezza in quella vita che sembrava non andare secondo i piani.
Forse – rifletteva – in mezzo a tutto quel silenzio i suoi pensieri avrebbero marciato meglio.
E adesso era lì, Antonio, che respirava quell’aria calda. Seguiva l’italiano eccentrico di una guida del posto. Intanto pensava ai cassetti da sprangare, alle porte da schiudere da li a pochi mesi.
Un istante e si mise la sciarpa sulla bocca, come per filtrare l’aria, come per prendere coraggio,  come per proteggersi dai rischi di una nuova strada cui indirizzare la propria vita. Restava solo un attimo indietro da quell’agglomerato umano così espansivo. Così aperto all’incuria di sabbie mobili sul cammino. Al contrario di lui, meditabondo, barbuto e smanicato.
Ma poi riprese il cammino.
La notte di San Lorenzo gli aveva messo da parte un desiderio.  Lo vide quella notte sotto le lucenti spoglie di una stella cadente scendere come una lacrima, rigare il cielo blu per un istante e poi spegnersi improvvisa nel buio.
Fece in tempo a cogliere il suo effimero volo, lo mise in un pensiero e poi lo soffiò nel vento fino a quel futuro che sognava;
carezza dolce di una rosa, ombra pudibonda nella frescura buia del giardino.

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