Non molti anni fa, quando ero ancora un ragazzo alla ricerca di se stesso, perduto tra i banchi di scuola del glorioso liceo Giuseppe Garibaldi, mi capitò di incontrare una tizia che avrebbe cambiato la mia vita.
Era il 6 novembre 1997. Quando si presentò Lei. Era bella? Non lo saprei dire. Attenzione non che avessi scelto strade diverse, ma già a quell’epoca sapevo che tra uomini e donne c’erano delle distanze invalicabili e nessuna Maria De Filippi a moderar tra le parti. A quell’epoca non mi era concesso di soffermarmi su questi particolari e lo confesso, anche se lo fosse stata, non ci avrei fatto caso. Allora (avevo quindici anni), ero abbastanza maturo da comprendere che non era il caso di perdersi dietro fantasie da camionista erotomane che poi avrebbero finito col nuocere gravemente il mio ancor giovane sistema nervoso.
Così fin dall’inizio del nostro “rapporto di lavoro”, presi a trattarla come e peggio di una scarpa vecchia con la stessa maligna indifferenza di un lord inglese, la freddezza di un boia, l’arroganza di un vecchio ottuagenario col cuore indurito da troppe delusioni e amarezze.
Lei mi voleva bene? Non lo so. Per mia sfortuna non ho grossa esperienza in materia, però a distanza di anni mi piace pensare che si … mi voleva bene. Era bellissimo ascoltarla parlare dei suoi viaggi. Io alzavo timidamente la testa e quando riuscivo a disegnare sul mio volto uno sguardo abbastanza neutrale così da non apparire fortemente interessato, non potevo fare a meno di perdermi nei suoi occhi color del mare e ritrovarmi in una dimensione aliena da tutto quello che mi circondava dove non esisteva niente: la scuola, i banchi, le sedie, il professore di turno, puff! Niente, tutto spariva. Rimanevamo solo noi due e le nostre chiacchierate seduti sul fondo della nostra anima sperando che la fatidica campanella suonasse il più tardi possibile.
Quanto fosse destinata a diventare importante per me, lo fece intuire subito.
Accadde che, avessi eseguito un tema sui “Promessi sposi” dal titolo ”Parla del personaggio che più ti ha colpito del capolavoro manzoniano” o qualcosa del genere, non ricordo, sta di fatto che lo lesse e … il suo viso s’illuminò di una luce che poi raramente ho visto in altre persone. Le era piaciuto così tanto che mi chiese di scrivere qualcosa per lei. Non le importava cosa. La cosa importante era che prendessi la penna e scrivessi. Io non sapevo cosa fare: ma davanti al suo viso non potevo resistere. E poi pensavo: “Una così non si arrabbia mica” e allora tentai l’impresa.
Per fortuna tutto andò bene, e la tensione accumulata quel giorno, si sciolse in mille applausi. I primi della mia vita.
A distanza di tredici anni da quel giorno, penso, che la giovane Nora Marrazzo (cui dedico queste righe), avesse mostrato una lodevole dose d’incoscienza quando m’invitò a scrivere per la prima volta. Probabilmente non sapeva a cosa andava incontro. Innanzitutto, sono indisciplinato. Sono un giornalista (o almeno aspiro a diventarlo, e siccome sono molto ottimista, in questo senso vi annuncio fin da adesso che lo diventerò: anzi lo sono già in qualche modo). Sono uno studente universitario (quindi sono un accademico) scrivo su una testata universitaria (quindi sono un giornalista). Quella che va a iniziare sarà una lunga cavalcata, ma prima di montare in sella mi sento di fare alcune promesse.
Non permetterò che l’incompetenza freni i miei giudizi.
Invoco una norma non scritta, nota come” immunità da ponte”: in materia accademica ogni opinione è legittima è insindacabile.
Non sarò equilibrato parlando di università. Potrà accadermi d’essere obiettivo, di tanto in tanto (mi scuso fin d’ora: non l’avrò fatto apposta). L’imparzialità è un obbligo per gli arbitri.
Non sarò imparziale. Parlerò solo di quelli che mi stanno simpatici.
Non farò distinzioni tra “università praticata e università guardata”, se non questa: la prima è più faticosa. Veder correre gli altri, bevendo una birra al bar, mi sembra un desiderio assolutamente ragionevole.
Non parlerò d’attualità. Non di quella ufficiale intendo. Parlerò invece della vita, senza traccia di buon senso, distacco o serenità.
Sono, infatti, un tifoso della vita d’osservanza psichiatrica e quando si parla di cose riguardanti i miei coetanei, non permetto che la realtà disturbi i miei ragionamenti.
Nessuna cosa sarà troppo piccola da non meritare attenzione. Sto già pensando a un articolo sul TFR. Prima però devo capire cos’è.
Non parlerò a nessuno di questo progetto. Potrebbero anche arrestarmi, è sarebbe un guaio.
Nessun commento:
Posta un commento